2-6-1946: contro-storia repubblicana nella stampa anni '502/6/2019

Memoria per 2-6-1946: contro-storia repubblicana nella stampa anni '50

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2-6-1946: contro-storia repubblicana nella stampa anni '502/6/2019

di Giovanni Curatola

Un anno dopo la fine della guerra, con la votazione referendaria del 2 giugno 1946 (la prima estesa alle donne), il popolo italiano mandò in soffitta Casa Savoia scegliendo per il proprio paese la forma di stato repubblicana. La vittoria di quanti votarono Repubblica non fu plebiscitaria, ma risicata: 54% (12.717.923 voti) contro il 46% (10.719.284 voti) dei monarchici. Anche geograficamente, l’Italia risultò quasi divisa in due: votò infatti Repubblica tutto il Centro-Nord ad eccezione delle province di Padova, Bergamo, Cuneo e della Sardegna, mentre la Monarchia trionfò da Roma in giù ad eccezione delle provincie di Latina, Ascoli, Trapani, Agrigento e Ragusa. Subito la parte sconfitta insorse denunciando un pesante clima di intimidazioni, violenze “rosse” e altri veri o presunti brogli elettorali, ma l’esilio di Umberto II in Portogallo avvenuto prima ancora che la Cassazione si pronunciasse sui ricorsi, rinunciando dunque a ogni eventuale pretesa, servì a traghettare pacificamente il nostro paese da “Regno d’Italia” a “Repubblica Italiana”. Tale frattura col passato fu salutata benevolmente anche dalla maggior parte di vecchi fascisti e di giovani reduci della R.S.I. “Il 2 giugno, con mia grande soddisfazione, la Monarchia andò in malora. Meglio una Repubblica sinistroide che una Monarchia responsabile di tutti i nostri guai” aveva scritto Giorgio Pisanò, alludendo alle firme reali con cui la Corona aveva avallato (nel caso delle leggi razziali) o addirittura pressato (nel caso dell’entrata in guerra) certe decisioni del defunto regime fascista.

Nel 1951, dalle pagine di “Oggi”, il patron Edilio Rusconi scrisse: “L’ideale di Patria era già uscito abbastanza malconcio dalla guerra: il mutamento istituzionale lo ha colpito ancora di più, demolendo la continuità dello Stato impersonato dal Re e mettendo la suprema autorità nelle mani dei partiti”. Gli fecero eco riviste nostalgiche come “Il Borghese” (“Ormai la Repubblica è fatta e ormai quel misero decoro nazionale che ancora sopravviveva non c’è più…”) e l’”Ansaldo”: “Sui basamenti di molti monumenti c’é ancora scritto: “La monarchia ci unisce”. E ora che non c’è più?”. Si, perché a dispetto delle apparenze, da più parti e più o meno sottovoce questa nuova Repubblica “dei partiti” non piaceva. Intanto, per il nome (il sostantivo “Italia” era retrocesso ad aggettivo: “Italiana”). Poi per quello che, a parere di molti, non riusciva più ad esprimere: ordine, autorevolezza, prestigio. Contrapposta alla Monarchia e al passato Regime, identificati soprattutto dai giovani di allora come qualcosa di stabile, duraturo e rassicurante, questa nuova Repubblica era immancabilmente associata al caos, all’indisciplina, alla becera e inconcludente lotta politica tra partiti. “Quella italiana – disse Montanelli – era proprio una repubblica nel senso che gli italiani hanno dato a questa parola: gran casino, cagnara, disordine e confusione”. Anche l’aspetto meteorologico sembrava poi dar loro ragione. Un freddo insolito e molti temporali avevano accompagnato i primi giorni repubblicani. “Il 21 giugno doveva arrivare l’estate – scrisse Gorresio su “Oggi” – ma non la vedemmo arrivare. A Roma aveva fatto un freddo desolante proprio il 18 giugno (giorno della pronuncia definitiva della Cassazione), che mandò a male la festa e mise addosso malinconia”. E poi provocatoriamente concluse: “La monarchia almeno l’estate ce la dava tutti gli anni…”. Lo stesso settimanale, nel 1956, dedicò un lungo servizio in più puntate a questa repubblica nata in sordina e sugli “intrighi” che ne avevano accompagnato la nascita, ricordando che al referendum del 2 giugno non avevano potuto votare gli italiani della Venezia Giulia, i prigionieri e le decine di migliaia di internati, epurati e sfollati che non avevano ancora potuto far ritorno a casa. Il sentimento anti-repubblicano prescindeva tuttavia da un attaccamento politico a Casa Savoia, che era solo vagamente affettivo, legato a ricordi personali, a consuetudini pubbliche e private come le festività per le ricorrenze dei reali, alle poesie al Re scritte dai bambini, a vecchi ritratti e vecchie bandiere riposte nell’armadio e un tempo appesi nei salotti o nei balconi, il ricordo di quando il Re e il Duce vegliavano sul paese rassicurando con la loro presenza, nell’immaginario collettivo, la crescita fisica e spirituale, lieta e spensierata, dei più piccoli.

Tuttavia, elemento comune di tale ondata nostalgica non era tanto la rivalutazione della monarchia o del fascismo in sé, né tantomeno l’auspicio di un rientro dei Savoia in Italia o un nuovo mutamento istituzionale, bensì una semplice critica all’Italia del presente, dominata dai partiti, attanagliata da continue divisioni, dalla noia, dal disinteresse, da ideali materiali ed egoistici che non facevano più presa sulla gente come quelli vecchi, e ormai priva di aspirazioni. A quest’Italia veniva contrapposta quella sabauda che l’aveva materialmente unita e quella fascista che, sia pure per mezzo a volte di qualche bluff l’aveva comunque resa laboriosa, ordinata e forte. “Oggi – si leggeva nel “Borghese” – l’unità non ha più nessun contenuto eroico, non apre più nessuna prospettiva di gloria, si riduce a un fatto puramente amministrativo”. E ancora: “Qualche anno fa il traforo del Monte Bianco avrebbe inorgoglito il popolo, oggi lo si nasconde nelle pagine interne di un giornale, tra il totocalcio e un annegamento…”. L’autore, Giovannini, si diceva certo che gli italiani rimpiangevano i tempi in cui si fondavano le città, si redimeva la terra, si inauguravano di continuo scuole, chiese, ospedali e ferrovie, e ogni opera programmata fioriva nei tempi ed entro i costi stabiliti. In 30 anni, sosteneva ancora Giovannini, c’era stato di tutto: guerra per Trento e Trieste, impresa fiumana, squadrismo, il fascismo con le sue colonie estive, le sue divise e i suoi riti, l’antifascismo, la guerra d’Abissinia, quella mondiale, Salò e la Resistenza. “Cosicché – concludeva – la gioventù ha avuto davanti a sé una vita piena di avventure, rischi, speranze, ideali per cui battersi, sensazione di vivere ore grandi” chiedendosi cosa ci rimanesse oggi, dove alla passione era subentrata la noia e dove le nuove generazioni annegavano nella pigrizia, nello scetticismo e nell’egoismo. Sulla stessa lunghezza d’onda, il quotidiano “Il Tempo”, che rimpiangeva senza mezzi termini “tutto il vecchio lavoro profuso, la risoluzione dei problemi economici, sociali, sindacali, la bonifica del monte e del piano, tutto il sincero entusiasmo di tanta gioventù, il calore e l’adesione di tutti allo Stato, il senso di fraternità nazionale oggi perduto”.

Dopo una durissima guerra – sostenne Giannini nel 1946 - il popolo italiano guardò con speranza alla nascente democrazia, ma rimase presto disgustato dall’opera disgregatrice, faziosa e paradossalmente antidemocratica dei partiti”. “Questa nostra classe dirigente – sostennero all’unisono Longanesi e Soffici - non ha saputo far nulla di meglio che sostituire una dittatura con un’altra, più subdola e falsa, perciò peggiore”. Anche le sconfitte sportive degli anni ’50 vennero messe in relazione alla decadenza psico-fisica dell’Italia democratica rispetto a quella precedente, che aveva invece visto gli atleti italiani trionfare in quasi ogni sport. Giudicata questa democrazia dei partiti priva di virtù proprie e di forza morale, nata più dalla calcolatrice di Romita che dal cuore degli italiani, Longanesi e Montanelli sostennero che adessa per giustificare la propria inettitudine altro non restava che tenere in vita il luogo comune dell’antifascismo. “Oggi i partiti agiscono come tante piccole patrie, in concorrenza con la Patria più grande che nessuno sente più”.

Infine, la bandiera. Irrimediabilmente associata alle cerimonie e all’entusiasmo del passato Regime, negli anni ’50 e ’60 il tricolore visse il suo periodo peggiore, tornando in auge solo dai Mondiali di calcio del ’70 e solo in occasione delle (poche) imprese della Nazionale. “La bandiera non fa politica” sosteneva Rusconi, aggiungendo come davanti al tricolore repubblicano molti non riuscivano più a commuoversi, forse per via di quel bianco centrale rimasto orfano di uno stemma, fosse lo scudo sabaudo o l’aquila della R.S.I.. Un bianco spoglio, vuoto, anonimo, come vuota e anonima era la repubblica che rappresentava.

Se vuoto e noioso fosse considerato anche il tricolore (esattamente lo stesso) che Napoleone mise a fine ‘700 a bandiera della sua “Repubblica Cisalpina” in Nord Italia, non è ancora dato sapere…

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