Quel Mostro del Mio Ex3/8/2019

Memoria per Quel Mostro del Mio Ex

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Quel Mostro del Mio Ex3/8/2019

di Avv. R. Patrizia Tripodi

Nel variegato mondo del Diritto di Famiglia stiamo assistendo all’avvento di una nuova “moda”: termine che solitamente richiama immagini leggere e spesso vacue. Quando però si tratta di rapporti di coppia, separazioni o divorzi, anche una parola apparentemente innocua, come “moda”, può assumere un carattere di estrema pesantezza. Mi riferisco all’uso ormai comune dei separandi, spesso avallati dai professionisti che li assistono, di descrivere il proprio “ex” come un mostro degno del miglior Christopher Lee in Dracula.

È ormai all’ordine del giorno per noi avvocati, ricevere un cliente che intende separarsi e che con la massima nonchalance descrive il proprio compagno di vita come un essere malvagio che agisce subdolamente, perpetrando continue violenze psicologiche. Di fronte a simili affermazioni, il dovere di indagare sulla veridicità di quanto sostenuto dal nostro cliente ci porta a scoprire, molto spesso, che parlare di violenza psicologica è per alcuni, solo uno strumento per porsi dalla parte della ragione e chiedere risarcimenti milionari. Spinti a ciò dalla sola brama di pecunia e di risparmio sull’entità del mantenimento. Comportamento che ritengo gravissimo perché fingere che nel coniuge o compagno alberghi una personalità maligna e pericolosa, quando invece così non è, non solo non fa di certo ottenere qualcosa a cui non si ha diritto, ma produce un enorme e infame danno a coloro che la violenza psicologica la subiscono davvero.

Nei primi anni del mio esercizio della professione forense, raramente accadeva di sentir descrivere mariti o compagni/e come  mostri. Non era la Novella di Boccaccio che ci fa trovare nel mezzo ad una sorta di “femminicidio tra fantasmi”, era la realtà. Quando questo avveniva, mi trovavo ad ascoltare racconti di episodi familiari di violenza, di maltrattamenti, di pesanti e costanti umiliazioni; di frequenti menzogne riferite presso il Pronto Soccorso; racconti di persone che dopo un primo momento di imbarazzo e di grande difficoltà, iniziavano ad aprirsi e raccontare le vicissitudini della coppia con occhi ancora colmi di terrore; le parole uscivano come fiumi in piena e inondavano l’atmosfera di storie complicate e penose; i toni erano mantenuti bassi e sommessi, da parte degli assistiti, come per paura di essere intercettati dal coniuge; da parte di noi avvocati quale manifestazione del nostro sgomento e quasi a voler rappresentare con il tono cauto della nostra voce, il massimo rispetto e compassione per le questioni private e dolorose di cui venivamo messi a parte, il brivido che percorreva la nostra pelle, il sussulto delle nostre anime, soprattutto quando alle violenze avevano assistito inermi dei bambini o quando anche loro le avevano subite in modo diretto. Si trattava per lo più di violenze che scaturivano da alcoolisti o tossicodipendenti oppure da persone che a loro volta avevano da bambini, vissuto in famiglie caratterizzate dal facile uso di violenza e cresciuti nella totale mancanza di rispetto e considerazione tra i componenti il nucleo. Famiglie in cui la violenza era all’ordine del giorno; dove bastava che una pietanza non avesse la giusta quantità di sale, perché da questo, una cena (e cioè un momento che in una famiglia dovrebbe rappresentare il piacere di ritrovarsi insieme dopo una giornata trascorsa, ognuno intento ad occuparsi del proprio lavoro e delle funzioni quotidiane, per confrontarsi, raccontarsi), una semplice cena si trasformasse in un incubo urlato; dove le mani erano mosse a violenza con velocità superiore a quello del suono delle parole insultanti; dove ci si addormentava sfiniti dopo essere stati offesi, picchiati, umiliati e sentendosi come un topo in trappola, senza via di scampo, senza possibilità di cambiamento; con l’incapacità di reagire o di chiedere aiuto. Il luogo comune del “i panni sporchi si lavano in casa” rappresentava la prigione mentale e fisica in cui chi pativa le violenze si sentiva rinchiuso, spesso resa ancora più dura e ineludibile dal senso di colpa di cui le vittime erano pervase, incapaci di allontanare la pericolosa idea che essere maltrattati per moto di gelosia significasse essere amati e soprattutto avere meritato la violenza per averla provocata. Senso di colpa per non essere capaci di affrontare la situazione; per non essere in grado di proteggere se stessi e i propri figli; per non avere gli strumenti atti a consentire la fuga, non sapendo dove trovare rifugio. Il tutto condito dall’azzeramento della volontà, dal non riuscire a cercare aiuto nemmeno nella propria famiglia di origine o in qualche amico/a fidato. Fino a che quelle stesse paure, quel senso di frustrazione, quel dolore profondo causato dal coniuge di cui si stentava a capire le ragioni, non venivano ad un certo punto accompagnati e sostituiti da un conato dell’anima, che finalmente tentava la via della ribellione. Così arrivavano a sfogarsi con noi avvocati, estranei ma allo stesso tempo complici attenti e pronti a trovare soluzioni e mai a puntare il dito, e finalmente lo sguardo si volgeva al futuro consapevoli che il domani avrebbe avuto in ogni caso un colore diverso e che il primo passo verso quel domani era stato finalmente, benché faticosamente mosso.

Ecco! Questi erano i mostri di cui sentivo parlare e dei quali ancora oggi a volte mi occupo. Ormai dilagante il fenomeno del femminicidio per il quale è stata emanata la Legge n. 119 del 2013,con l’obiettivo di garantire una maggiore tutela delle donne vittime di violenza e che ha comportato alcune modifiche al codice penale con l’aggravante dei maltrattamenti in famiglia, ossia il delitto che commette chiunque maltratta una persona della famiglia, o un minore, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia o per l’esercizio di una professione o un’arte. Il concetto di persona della famiglia, in passato veniva circoscritto ai coniugi, consanguinei, affini, adottati e adottanti, ora invece si propende per una interpretazione estensiva in cui rientrano dunque i soggetti legati da qualsiasi rapporto di parentela, nonché i domestici, a patto che vi sia convivenza. Si tratta di un requisito importante che comporta quindi l’ammissibilità della fattispecie anche nei confronti del convivente more uxorio. La parola femminicidio esiste nella lingua italiana solo a partire dal 2001. Fino ad allora, l’unica parola esistente col significato di uccisione di una donna era uxoricidio. Ma uxoricidio, termine composto dalla parola latina uxor (moglie), alludeva appunto solo all’uccisione di una donna in quanto moglie e veniva estesa anche agli uomini, quindi al coniuge in generale. Non c’era in Italia una parola che alludesse all’uccisione di una donna proprio in quanto donna. Nella lingua inglese invece già nel 1801 c’era il termine femicide alla quale si accostò nel 1992 feminicide, coniata dalla criminologa Diane Russell che la usò in un proprio saggio. Successivamente l’antropologa messicana Marcela Lagarde, si avvalse di questa parola per indicare i numerosi omicidi di donne compiuti al confine tra Messico e Stati Uniti. Nella lingua italiana il termine inizia a diffondersi nel 2008 quando Barbara Spinelli pubblicò un libro intitolato “Femminicidio”. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale. Da questo momento in poi il termine femminicidio ha iniziato a riempire le pagine dei giornali italiani ed indica tutte le forme di violenza contro la donna in quanto donna, praticate attraverso diverse condotte misogine (maltrattamenti, abusi, violenza fisica e psicologica) che possono culminare nell’omicidio. Sebbene siamo ormai abituati a leggere sui giornali e sentire nei Tg parlare di questa triste realtà e nonostante ciò che in genere si pensa, sono molti gli uomini a subire violenze domestiche di ogni tipo. Non è poi tanto raro per gli avvocati che si occupano di diritto di famiglia sentire uomini raccontare di violenze perpetrate nei loro confronti da mogli o compagne e stupisce sempre perché si tende a credere che l’uomo abbia in genere una maggiore facilità nel difendersi e non solo dalla violenza fisica, ma non è affatto così. Il motivo per cui molti sono convinti che subire violenza possa capitare solo ad una donna è frutto di un errato concetto di forza e della sopravvalutazione di quella fisica. In realtà è un falso convincimento dovuto alla enorme difficoltà che l’uomo ha nel denunciare fatti di violenza subiti, ancor più se provenienti da una donna. Ragioni psicologiche e sociali, di orgoglio maschile, importanza del senso di virilità, fanno sì che l’uomo subisca senza mai denunciare e senza mai neppure confidare a qualcuno ciò che gli accade. La donna in qualche modo pur provando vergogna riesce a parlarne, l’uomo quasi mai. La violenza è tale nei confronti di chiunque venga agita e poco conta se contro donne o uomini; essa resta un male da combattere e debellare. Eppure della violenza sessuale sugli uomini non parla nessuno; è l’ennesimo tabù da superare. Le mura domestiche nascondono molti più segreti di quanti, anche attenti scrutatori, siano capaci di scorgere.

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