"LA TERRA BIANCA" DI GIULIO MILANI

18 June 2017

Una sterminata scogliera di fossili

“Tra le montagne, c’era un castello incantato dove succedevano cose stranissime. Era deserto, eppure aveva le finestre illuminate, le tavole sempre imbandite. Si diceva custodisse tesori immensi, ma vi avevano preso dimora spiriti terribili...”

1.

La terra bianca e? come un’onda pietrificata, una sterminata scogliera di fossili che si estende in verticale fino al cielo: ap- pena posso lascio la citta?, la lingua di cemento e asfalto che ospita il costruito e inseguo l’odorino del mare finche? non diventa una presenza fisica assoluta, un regno, sulla spiaggia da cui ogni cosa ha avuto inizio.

Non mi tolgo le scarpe, sono irrimediabilmente un ani- male di citta?. Ho lasciato la macchina dalle parti di piazza Bad Kissingen, in divieto, perche? appena c’e? un po’ di sole i miei concittadini hanno tutti la stessa idea. Ho superato le dimenticabili vele di marmo progettate da uno scultore per abbellire la rotonda, e adesso affondo le Vibram nella sabbia diretto alla battigia: a destra ho il promontorio di Punta Bian- ca che si allunga di vedetta sul mare – nel 1944 ospitava la punta avanzata del fronte di occupazione tedesco –, a sinistra biancheggia l’insenatura di Marina di Pietrasanta e Viareggio, mentre la livida, sconfinata distesa del mare mi riempie la vista e i polmoni. Che ci sono venuto a fare?

E? un inizio di novembre. Di ritorno dalla mia passeggiata faccio il giro largo e prendo su per viale Mattei. Attraver- so il ponte sull’autostrada, supero la rotatoria con la lizza di marmo in mezzo, e mi lascio l’Euromercato alle spalle, sulla destra, diretto in via Dorsale e a quanto resta del polo indu- striale apuano.

L’alta Toscana, questa terra di confine, s’incunea tra la bassa Liguria e l’Emilia. La provincia di Massa Carrara e? composta di due citta? distinte che contano insieme circa due- centomila abitanti: l’agglomerato urbano piu? settentrionale della regione confina a ovest con la provincia di La Spezia, a nord con le province di Parma e Reggio Emilia e a sud-est con la provincia di Lucca, mentre si affaccia sul mar Tirreno a sud-ovest. Le Alpi Apuane, catena montuosa che sorge tra i fiumi Magra e Serchio, declina a sud-ovest verso la riviera apuana e la Versilia, e a nord-est verso le valli di Lunigiana e Garfagnana. La marca corrispondente al loro bacino e? stori- camente conosciuta col nome di Apuania.

Marina di Massa, come tutta la Versilia piu? a sud, e? stata strappata alle paludi e ai laghi sul genere del lago di Porta a Montignoso, che e? l’ultimo baluardo di quella che doveva es- sere questa “bioregione” un secolo fa, prima che la supposta vocazione turistica venisse soppiantata dall’industria pesante: i lavori di bonifica furono completati solo nel 1845 e nei primi anni del Novecento inizio? a svilupparsi il turismo balneare; agli hotel e alle prime ville in stile liberty sul modello di Via- reggio segui? negli anni trenta la costruzione delle colonie per ospitare i figli degli operai occupati nelle grandi industrie del Nord. Successivamente sarebbero arrivate anche le industrie, sempre con la testa al Nord e non nel territorio –, e dunque le prime a scomparire in caso di crisi o ristrutturazione, come fatalmente accadde e continua ad accadere.

Eccoci. Ex Farmoplant-Montedison. Ex Rumianca-Eni- chem. Ex Bario-Solvay. Ex Italiana Coke. Ex Ferroleghe. Questa e? tutt’oggi una delle zone piu? inquinate d’Italia, anche per le polveri sottili prodotte dal traffico incessante di mezzi pesanti, fra i quali i sempre piu? numerosi e caratteristici ca- mion coi pianali per il trasporto di blocchi di marmo grandi alle volte come interi container e, in misura molto maggiore, i ribaltabili carichi fino al colmo di scaglie detritiche per i mille usi non ornamentali della pietra: la rivoluzione tecnica di fine Ottocento, con le invenzioni del filo elicoidale e della puleggia penetrante, nell’arco di un secolo e di successive innovazioni e mutamenti del mercato avrebbe trasformato il centro di lavorazione in un distretto minerario vero e pro- prio, concentrando l’attenzione e gli interessi sullo sfrutta- mento del carbonato di calcio.

Le motivazioni che portarono, nel 1938, alla creazione della Zona industriale apuana erano direttamente ricollega- bili alla crisi dell’economia marmifera innescata dalle san- zioni internazionali contro l’Italia e il regime di Mussolini: la normativa prevedeva incentivi per le imprese, circostanza che favori? l’insediamento di grandi gruppi nazionali; ma su- perato il “boom economico” del dopoguerra, tra i settanta e gli ottanta scomparvero o si fusero diverse societa?, mentre nel polo industriale apuano si verificarono una serie di incidenti molto pericolosi: il piu? noto fu l’esplosione, nel luglio del 1988, del serbatoio di Rogor, pesticida prodotto presso lo stabilimento Farmoplant di Massa, proprieta? della Montedi- son. La “nuova Seveso”, come venne ribattezzato il caso dalla stampa nazionale – gia? impressionata da quanto accaduto po- co tempo prima col disastro di C?ernobyl’ in Unione Sovietica e di Bhopal in India alla fine del 1984 –, produsse una vasta eco e rappresento? il culmine di visibilita? per un movimento ambientalista, erede delle lotte libertarie che lo anticiparono, tanto forte da riuscire a indire nell’87 (l’anno precedente al “disastro annunciato”) il primo referendum consultivo d’Eu- ropa per ottenere la chiusura della fabbrica.

Nelle immediate retrovie della riviera, sul lato B della ve- trina turistica, sto dunque attraversando quelle che nella mia testa di cittadino informato sui fatti sono “zone Sin” da boni- ficare, diventate recentemente “zone Sir” con meno obblighi burocratici per la bonifica, nell’epoca della Grande Riclassi- ficazione, per liberare nuove cubature e rilanciare – cosi? ci si augura speranzosi e folli – l’economia della zona.

Eccetto un paio d’anni di studio a Roma e altri due di apprendistato ad Ancona, vivo e lavoro da sempre in que- sta provincia. Eppure non mi e? mai stato molto chiaro quale fosse, a parte un’ostinazione granitica, il vero motivo della mia permanenza: alla fine, inseguendo un’ossessione, a qua- rant’anni suonati mi sono ritrovato a condurre una ricerca personale sulle conseguenze di un trauma, a caccia dei re- sponsabili di un crimine nascosto cosi? bene, nei risvolti del- la tradizione, da non essere nemmeno percepito come tale. Potremmo chiamarlo il Grande Trauma da cui discendono tutta una serie di traumi minori che mi ossessionano sin dagli anni della giovinezza e che vorrei tanto superare. Bonificare. Rimettere nel giusto e, se possibile, dimenticare.

2.

Bonificare, in ogni caso, non sara? cosi? semplice. Da un rappor- to dell’Arpat dell’aprile 2013: “i dati confermano forti rischi per la salute degli abitanti, poiche? provano che anche in di- verse zone passate sotto il controllo della Regione persiste una contaminazione da tossico-nocivi diffusa, benche? molte delle attivita? produttive siano state dismesse, sia nei suoli che nelle acque di falda di buona parte del Sito di interesse nazionale”.

Gli inquinanti presenti sono soprattutto scarti che derivano dalle vecchie lavorazioni eseguite nel polo industriale: metalli, composti organici aromatici, fitofarmaci, idrocarburi, ceneri di pirite (arsenico, piombo, cadmio), scorie di fusione (cromo) e, in alcune aree, diossine e furani. “Tali materiali”, si legge nel rapporto, “sono stati riscontrati soprattutto all’interno dei siti dismessi (Syndial, ex Cokeria, Farmoplant), ma sono presenti anche in aree ad uso residenziale, in quanto venivano utilizzati per il riempimento di quote depresse”. Preoccupante anche la situazione della falda, in cui e? stato evidenziato “un diffu- so inquinamento imputabile a diverse fonti, sia puntuali che diffuse, caratterizzate da una notevole variabilita? in termini di caratteristiche, persistenza, tossicita? e biodegradabilita?”. Quante le persone, lavoratori e residenti, che sono morte e continuano a morire in questa “terra dei fuochi” da primato per malattie del sangue e respiratorie, ma ancora pressoche? sconosciuta all’opinione pubblica nazionale?

Quattro mesi piu? tardi, il 2 marzo 2014, avrei raggiunto la montagna sopra Carrara, localita? Campocecina, per prendere parte a una protesta d’alta quota contro la distruzione delle sorgenti e delle montagne: ricordo come in sogno di essermi unito ad altri duecento attivisti per comporre sul crinale di una collina, nel bel mezzo di una tempesta di neve, la scritta salviamo le apuane con grandi lettere di cartone color porpora. Insieme a me un gruppo di giovani provenienti da Carrara, da Massa e da Viareggio: il gruppo anarchico apuano “Marco Camenisch”. Avrei acceso e brandito io stesso un fumogeno rosso, il solo che abbia mai acquistato varcando per la prima volta la soglia di un’armeria. L’idea era quella di mostrare fin dalla riviera “il sangue delle montagne”, ma la tormenta di ne- ve ci avrebbe costretto a una coreografia inattesa, non priva di una sua epica: le foto del giorno dopo avrebbero immortalato gruppuscoli di sbandati, in perfetta tenuta da neve, sgranati lungo i versanti di una modesta collina. Insomma, mancavano le slitte e gli asini e pareva una versione in sedicesimo della ritirata di Russia, con tanto di alpini apuani a corredo...

Poi, intorno all’una, poco dopo la bufera di neve e la ceri- monia di protesta coi fumogeni, il cielo si sarebbe aperto per mostrare uno spettacolo unico al mondo: dietro la collina da cui prima non vedevamo nulla, ecco comparire gli sconci, grigioscuri gironi di escavazione prodotti dalle macchine sulle pendici del monte Sagro; oltre l’anfiteatro innaturale delle cave di marmo digradanti, tra le nuvole filamentose che si dissolvevano davanti a noi sbalzava invece, milletrecento me- tri piu? in basso, sotto il cielo terso e la montagna innevata da cui guardavamo, la luce azzurra del mare rischiarato dal sole.

Com’ero dunque finito a milletrecento metri di quota, nel pieno di un’imprevista tormenta di neve, per prendere parte al debutto del movimento “No cave” in terra apuana?

Tutto ebbe inizio quando a meta? novembre, una quindi- cina di giorni dopo quella passeggiata in riva al mare seguita dal rientro attraverso le macerie e le scorie ancora attive del polo industriale apuano, presenziai a un incontro organizzato dall’Archivio Germinal sul tema del Terzo Valico di Genova e del Tav della Val di Susa. L’argomento mi interessava in forma indiretta, piu? che altro mi premeva conoscere l’opinione degli anarchici di Carrara sull’emergenza cave: sin da ottobre, con le prime piogge, nelle citta? gemelle di Massa e di Carrara si era manifestato l’insolito ma sempre piu? frequente fenomeno dei fiumi bianchi come latte; il fenomeno era la conseguenza dello sversamento di “marmettola”, un residuo industriale della sega- gione del marmo, che dai piazzali delle cave veniva dilavato lun- go fiumi e torrenti, avvelenandoli. Per contrappasso coloristico, sempre a ottobre, un’inchiesta della magistratura denominata “Nero alle cave” aveva sollevato il coperchio su un sistema di sottofatturazioni legate all’export di marmo verso l’India. Altre inchieste giornalistiche indipendenti avevano invece denuncia- to, nel corso dell’ultimo anno, il consolidamento delle posizioni da parte di ecomafie, ’ndrangheta e camorra in testa, nel nostro territorio, grazie appunto al riciclaggio del nero e al business del dissesto idrogeologico, dei rifiuti e delle discariche abusive.

E poi c’era il tema delle grandi opere, come la “strada dei marmi” – un dedalo di gallerie che erano state realizzate a Carrara tra il 2008 e il 2012 per deviare i 1.500 passaggi di Tir al giorno nel centro della citta? –, cio? che era gia? costato il non invidiabile primato di tumori alle vie respiratorie, oltre al degrado viario e urbano: una spesa di 120 milioni di euro da parte della fiscalita? generale che ancora gravava per quasi nove milioni di euro all’anno (ovvero la meta? degli introiti derivanti dalla tassa marmo) sulle casse dell’amministrazione comunale. Nel frattempo, una lettura faziosa delle potenzialita? del terri- torio aveva agevolato la costruzione di laboratori e depositi di marmo lungo gli argini di fiumi e torrenti, o addirittura nell’al- veo, intombando o strozzando i corsi d’acqua nel loro tragit- to, modificandone il percorso, cementificandone le casse di espansione, ostruendone la foce con ponti bassi e porticcioli, facendone – in certi casi sin dalle sorgenti a monte – i collettori per il displuvio dei detriti estrattivi: in seguito all’intensificarsi degli eventi pluviometrici legati al riscaldamento climatico, il complesso di costruzioni, attivita? estrattive, errati o incomple- ti interventi, rimpallo burocratico delle competenze, cattiva gestione della spesa pubblica, disattesa amministrazione del rapporto costi/benefici come del principio di precauzione, negazione dei problemi e della loro origine, sarebbe diventato corresponsabile di quattro alluvioni nell’arco di un decennio a Carrara (la prima nel 2003 e l’ultima nel novembre del 2014) e quasi altrettante a Massa (la piu? grave nel 2012), con danni a cose e persone per centinaia di milioni di euro.

Dunque mi ero presentato all’incontro organizzato dagli anarchici, presso la Sala della Resistenza, con la seguente domanda: perche? non prendere esempio dai No Tav e dare battaglia ai distruttori?

L’incontro ebbe inizio non prima delle dieci e mezzo, con un ritardo imperdonabile. Si perse una buona mezz’ora nel tentativo di collegare il pc al grande schermo di cui la sala era dotata. Alla fine era partita la proiezione di un documen- tario sulla repressione in Val di Susa, un montato di venti minuti con interviste agli avvocati difensori di alcuni militan- ti arrestati durante l’estate. Le interviste agli avvocati erano lunghissime e l’audio pessimo, ma le notizie che portavano fecero rabbrividire la platea.

“Il problema del governo”, esordi?, dopo la proiezione, un giovane di nome Massimo, un anarchico trentino che si era unito alla causa No Tav, “e?, come avrete capito, la gestione del dissen- so”. Il relatore, che dunque non era originario della Val di Susa, poteva avere trentacinque anni; portava gli occhiali tondi con la montatura dorata, e parlava con competenza e una certa di- sinvoltura da intellettuale, ma senza la degnazione del mestiere.

“Un conto e? la protesta e la lamentazione, che sono accetta- bili. Ma se la protesta e la lamentazione superano una certa so- glia, e diventano dissenso esplicito e risolutezza nella decisione, la faccenda non viene piu? tollerata. La reazione del governo si preoccupa oggi di minare alla radice l’opzione zero, la radicalita? del ‘no’: il pacchetto di sicurezza Pisanu del 2005 tende proprio a contrastare questo atteggiamento di rifiuto assoluto, capace di acquistare massa critica. Adesso i magistrati dicono che non e? l’azione in se? a essere terroristica, ma ‘il contesto’. Dicono che il movimento cerca di ‘coartare lo Stato democratico’ e che la nostra azione danneggia l’immagine dell’Italia”. Rise, e la platea rise con lui. Ma subito dopo arrivo? la parte spiacevole: “Loro distruggono, inquinano, reprimono le proteste con la polizia, coi droni e con l’esercito, ma siamo noi a danneggiare l’imma- gine del paese. Adesso si rischiano trent’anni di carcere e la vita carceraria e? quella di un sorvegliato speciale. Restrizioni come isolamento, campo visivo limitato giorno e notte, trasferimenti a centinaia di chilometri da casa, altri ostacoli per visite e te- lefonate. Attraverso questo sistema si cerca di criminalizzare il movimento e di impartire delle lezioni esemplari perche? si sciolga. Ma la vecchina di novant’anni che indossa la maglietta con scritto ‘sono una terrorista, arrestatemi’, e? la nostra arma vincente. Quindi abbiamo rilanciato la protesta al livello nazio- nale e non mancheranno iniziative per collegare il movimento No Tav alle mille criticita? e nocivita? locali in tutta Italia”.

Ero perplesso, intimorito. Chissa? cosa pensava Alberto Grossi, il film-maker che lottava contro la distruzione delle montagne: si era seduto un paio di file dietro me, sulla destra, se mi giravo di sguincio riuscivo a vederlo.

Poi, fu il turno del mio vecchio amico Mauro. Sulle pri- me stentai a riconoscerlo, e non solo perche? erano trascorsi vent’anni dall’ultima volta. Ma la stranezza che sopra ogni cosa mi avrebbe turbato, che mi avrebbe fatto trasalire, fu quando di li? a poco lo presentarono come “Patrizio”: “Passiamo la pa- rola al compagno Patrizio, che opera invece in Val Bormida”. E l’amico di un tempo ando? a sedersi davanti a noi, al centro della sala, sulla stessa sedia del compagno Massimo. “Un mo- vimento di massa”, esordi?, “non e? che esperienza vissuta fatta di petizioni, di scioperi, di presi?di. Nel tempo abbiamo capi- to che perfino diventare maggioranza democratica non basta. All’inizio i sindaci erano con noi, ma poi si sono fatti comprare, e hanno annacquato le proteste. Il popolo ha risposto con una partecipazione e una determinazione ancora maggiore”. Su una cosa non c’erano dubbi: era rimasto il vecchio contestatore che avevo conosciuto all’inizio degli anni novanta.

“In Val Bormida”, aveva proseguito, “il problema e? l’ac- qua, e se difendi l’acqua non c’e? governo ne? amministrazio- ne che tenga. Noi abbiamo impedito la realizzazione della discarica di Sezzadio, dopo una lotta lunga e determinata vinta dai comitati presenti nel territorio”. Poi spiego? come il movimento No Tav Terzo Valico aveva collegato da tempo gli interessi politici ed economici della Regione Piemonte e delle amministrazioni a quelli della multinazionale Riccobo- ni, per la realizzazione della discarica in questione. Grazie alla spinta dei comitati, infatti, pochi mesi prima la zona era stata classificata non idonea a ricevere lo “smarino”, ossia la terra di escavazione, derivato dai lavori per l’alta velocita? del Terzo Valico: poteva contenere uranio e amianto e mettere in pericolo la falda acquifera sottostante, e con essa l’approvi- gionamento d’acqua di tutto il basso Piemonte.

“Risulta evidente”, aveva concluso il mio vecchio amico, “che la resistenza si fa sull’acqua. Come ha dimostrato il refe- rendum per l’acqua pubblica, sull’acqua si vince. E i sindaci collusi cadono come birilli”. Rise e si prese gli applausi. 

Ormai era mezzanotte passata. Quando l’assemblea si scio se, mi alzai e lo raggiunsi. Dovevo assolutamente parlargli.

“Mauro”, dissi, mentre gli mettevo una mano sulla spalla per farlo girare, “sei proprio tu”.

L’amico di un tempo sollevo? lo sguardo e mi squadro? co- me lo avessi rapito da una lunga vacanza.

“Lo sapevo”, disse, “venendo a Carrara me lo dicevo: rischi grosso, vent’anni di latitanza buttati nel cesso”, e rise. “Adesso ti racconto tutto. Fammi salutare gli amici che ritornano in valle e andiamo a berci una cosa coi compagni di Carrara”.

3.

Raggiungemmo il circolo Arci la Capinera di via Ulivi in una dozzina – eravamo circa una dozzina –, scambiando qualche informazione gli uni con gli altri sulla provenienza, l’eta?, il nome. Per fortuna scoprii che alcuni si conoscevano e altri no, non ero quindi l’unico galileo nel Getsemani.

Ci sedemmo intorno a un paio di tavoli di marmo bianco, le schiene assiepate lungo le panche di legno, e ordinammo quattro bottiglie di rosso. Mauro mi stava di fronte, gioviale e rilassato dopo la buona riuscita dell’incontro. Quando lo avevo conosciuto, nel ’90, era un ex insegnante di religio- ne che aveva studiato teologia all’universita? di Torino pur di andarsene di casa e poi si era dedicato per tutta la seconda meta? degli anni ottanta all’attivita? politica: per vivere, aveva lavorato al Discolo e al Capsicum, due dei locali piu? chiac- chierati della Versilia. Non era difficile prenderlo in simpatia, soprattutto mi era piaciuta la storia della sua vita, o meglio, il racconto che me ne aveva fatto.

Aveva insegnato per due anni alle medie, tra l’83 e l’85, ma sosteneva di non essersi mai vestito come gli altri professori di religione: non aveva i capelli tagliati dritti sulla fronte e non indossava il completo d’ordinanza. Era molto piu? alto e piu? giovane del piu? alto e giovane dei suoi: di corporatura robusta, curato nella persona, potevi andargli incontro con la stessa curiosita? mista a soggezione che destava un animale esotico nel giardino di casa.

In effetti gli occhi di Mauro, azzurri, ti scrutavano in volto senza imporre niente di piu? che la propria attenzione. Ave- va capelli biondi estremamente fini, morbidi e compatti nella scriminatura che viaggiava da sinistra a destra come un’onda di seta leggera. L’ombreggiatura della barba, pur essa bionda, somigliava a quel tempo a una fitta vegetazione di grano mie- tuta corta sulla linea che passando sotto il confine del naso congiungeva le estremita? dei capelli; di modo che, per quanto accuratamente si radesse, ogni qualvolta muoveva il capo fieri barbagli d’oro trascorrevano su tutta la superficie di quella te- sta. Quando alzava la voce, sentivi il tono profondo e deciso, ma anche vivace e squillante in un modo che non aveva niente di autoritario o aggressivo. Pareva un atteggiamento voluto e apparentemente diretto a se? stesso non meno che agli altri. Nel- la scelta degli abiti, come nelle abitudini e nelle frequentazio- ni, era particolarmente azzardato: tutto scuro dalla giacchetta ai jeans, tranne che per la vistosa camicia a quadri, ascoltava musica rock e s’intratteneva in piazza coi ragazzi piu? grandi, e nella piccola comunita? dove aveva ricevuto, poco piu? che ventenne, il suo primo incarico, era molto conosciuto. Lui non era come gli altri insegnanti, ripeteva spesso, era diverso. Non parlava in dialetto, non faceva recitare il Padre nostro tutte le mattine, e non teneva lezioni di catechismo. Per i suoi scolari e per tutte le persone che lo frequentavano al di fuori della scuo- la, lui era Mauro, nient’altro che Mauro. Ma la sua personalita? critica e contraria all’ingiustizia – lo aveva presto compreso – non poteva convivere con questa normalita?. Quando questa personalita? si mostro? con chiarezza ai suoi stessi occhi, Mauro sciolse gli indugi e si trovo? costretto a lasciare l’insegnamento.

Pero? non volle abbandonare la citta? dove nel frattempo, a partire dall’85, aveva preso parte al comitato per i diritti degli immigrati e all’Assemblea permanente dei cittadini contro la Farmoplant. Voleva decidere la sua vita da solo, per una volta, e voleva farlo nel luogo dove un destino gia? scritto, prima ancora che ingiusto o sfortunato o altro, lo aveva visto nascere. Fu ospitato all’inizio da buone persone che facevano parte del suo stesso ambiente, poi trovo? sistemazioni sempre sull’orlo della miseria o quasi. Rimase legato all’ambiente re- ligioso, in un primo momento, perche? si diceva uomo di reli- gione in esilio dalla religione, ma in realta? perche? era dotato di quelle capacita? astratte che non servono in nessun mestie- re, tranne in quello del predicatore. Come un moderno Lord Jim di riviera si ritirava in buon ordine da una casa all’altra, da un mestiere all’altro, da una compagnia all’altra, e la gio- vinezza gli dava la forza per continuare e aspettare, senza fretta ne? scampo. Cosi?, anno dopo anno, lo conobbero come barman, come cameriere, come commesso in un negozio di dischi, come tecnico in una televisione privata, come bagni- no, come portiere di notte, lavapiatti, uomo di fatica, cuoco: e in ognuno di questi ruoli lui non era altro che Mauro, il li- bertino anarchico, l’ex insegnante reietto delle scuole medie.

Piu? tardi, la sua acuta percezione dell’intollerabile e le noie che, come una benedizione, come una liberazione la propria attivita? di protesta gli avevano attirato contro, lo avrebbero distaccato anche dalla piccola citta? ingrata, spingendolo a tornare nella regione dove aveva studiato, fin dentro l’oscuro villaggio della Val Bormida in cui, negli anni a venire, avrebbe maturato questa sua nuova identita? militante.

“Sono dovuto sparire”, si giustifico? quella notte alla Capi- nera, quando la brigata aveva gia? salutato i primi bicchierini e poneva meno attenzione ai nostri appartati discorsi, “per- che? a Massa ero perseguitato, non trovavo piu? lavoro. Con la mia famiglia avevo rotto sin dai tempi della Farmoplant, visto che mio padre ci lavorava mentre io ero tra gli stronzi che la volevano chiudere”.

“Non hai piu? rivisto nessuno?”, domandai. Lo guardavo e ancora facevo fatica a sostenere la radicalita? del cambiamento. “Ogni tanto telefono a mia madre, e parliamo solo di salute. Con mio padre non ho piu? scambiato un ‘ma pero?’. Sento ancora qualche vecchio amico, alle volte”, rise. “Ma con Mas- sa ho chiuso”, aggiunse in tono definitivo.

“Ma questa nuova attivita? politica... Patrizio e? un nome di battaglia?”.

“Mi sono trasferito perche? la situazione si era fatta davve- ro pesante”, riflette?. Aveva portato il bicchierino alla bocca e l’aveva bevuto d’un sorso. “Tu non hai idea delle persecuzio- ni. La Digos ti viene a svegliare alle cinque del mattino solo per chiederti se conosci Tizio o Caio, presunti sovversivi, che hanno fatto il tuo nome per una pista apuana sugli attentati ai tralicci di Frittole...”. Aveva conservato quel suo modo di far mulinare la mano a palmo aperto, mentre parlava, a cui si era aggiunto il vezzo di passare indice e pollice sui baffi al momento di tirare il fiato. “Insomma, si fanno vivi per intimi- dirti con le stronzate. Quelli del sindacato hanno messo una spunta sul tuo nome e dall’ufficio di collocamento non arriva piu? una chiamata. In giro si e? sparsa la voce che sei una testa calda, un malfattore, una rogna, e appena prende due infor- mazioni nessun datore di lavoro se la sente di rischiare. Per non parlare delle amarezze che ho patito nel movimento...”.

Conoscevo la storia dell’Assemblea permanente, del Co- mitato dei cittadini davanti alla Farmoplant e di Medicina democratica in modo solo superficiale, ma mi interessava molto. Per parte mia, ero convinto che da quella stagione di lotte potesse tornare qualcosa di buono anche per l’oggi. C’erano ancora molti nodi in quel passato tutto sommato re- cente, fatto di rapina industriale, di minaccia all’incolumita? e danni alla salute delle persone, di grandi opere a spese della collettivita? e a vantaggio di pochi, di collusione tra politica, impresa, sindacati, massoneria e mafia, che andavano sciolti o non ci avrebbero abbandonato mai. Come illustravano le piu? recenti inchieste della magistratura e giornalistiche, de- terminate scelte compiute a migliaia di chilometri di distan- za ci riguardavano da vicino. E dimostravano, se mai ce ne fosse stato bisogno, che la politica non poteva essere lasciata ad altri, altrimenti ci passava come uno schiacciasassi sopra: allora come adesso, a Massa Carrara come nel resto d’Italia, la stessa opinione pubblica si era svenduta per un tozzo di pane e aveva venduto con se? stessa anche l’anima dei luoghi e la propria dignita?, non lasciando altro che macerie su cui era difficile ricostruire. “A cosa ti riferisci?”, domandai.

“Aderii all’Assemblea nel gennaio dell’85. Per me era l’e- quivalente del passaggio del Rubicone. Mio padre ci lavorava, in quella fabbrica, ma il mio senso della giustizia non poteva tacere dopo la fuga di notizie che proprio dall’interno dello stabilimento aveva reso di pubblico dominio la produzione di pesticidi svolta per conto della Union Carbide, la multina- zionale responsabile del catastrofico incidente di Bhopal del dicembre dell’84. Fu proprio la circostanza che fossi l’unico attivista ad avere un familiare tra le fila degli operai, oltre al fatto di essere uno dei pochi letterati tra una marea di somari, che mi segnalo? quasi subito come un esponente di spicco. Forse qualcuno credette che la spiata ad Augusto Puccetti fosse arrivata da mio padre, chi lo sa. Questa storia la ricorda bene Marcello Palagi. Lo conosci?”.

“Non di persona”, dissi. Ma ultimamente anche il vecchio Palagi, negli anni ottanta tra gli esponenti piu? in vista del mo- vimento contro la Montedison, si era registrato su Facebook e aveva cominciato a pubblicare delle note su quei trascorsi mai digeriti. Mi ripromisi di leggerne qualcuna, come feci di li? a qualche giorno.

“In ogni caso”, prosegui? Mauro, “cominciai a scrivere per il giornale del movimento, ‘l’Assemblea’, e siccome i miei articoli avevano un certo successo ma risultavano troppo ra- dicali mi ritrovai contro i ‘nonni’ del movimento. Loro ave- vano fatto tutte le battaglie, capisci?, tutti i presi?di, tutti gli studi e i convegni, e adesso arrivavano belli riposati e con la ‘pappa pronta’ gli attivisti dell’ultim’ora come il sottoscrit- to, trovavano due slogan vincenti e un paio di idee nuove e pensavano con questo di potersi attribuire il ‘merito’ oppure, peggio, di poter dettare la linea? Cosi? non si faceva: loro si arrabbiavano, si vendicavano, ti delegittimavano col venticel- lo della calunnia. Insomma, c’era nonnismo e bullismo anche nel movimento!”.

“Quanta meschinita?”, sospirai ironico. I problemi di fami- glia mi interessavano fino a un certo punto.

4.

Una bionda presente alla conferenza si era nel frattempo spostata dalla nostra parte del tavolo. Conosceva Patrizio, mentre a me si presento? come Errichetta: parlava con un forte accento viareggino e sembrava simpatica. Venne fuori non ricordo come che aveva quattro figli, mentre io solo tre. Il racconto di Mauro, fatalmente, s’interruppe per qualche mo- mento. Tornero? piu? avanti su quel finale di serata. Vale invece la pena riportare subito alcune delle rivelazioni che nei giorni successivi avrei attinto dal diario pubblico di Marcello Palagi, uno degli esponenti storici del movimento per la chiusura della Farmoplant: “Improvvisamente, dopo tanti anni, mi trovo accanto, mentre parlo di Pinelli, nel quarantennale del suo assassinio, un lavoratore che ha promosso la realizzazio- ne e il posizionamento della lapide degli anarchici in piazza Fontana. Dopo i discorsi, mi dice che e? stato lui quell’operaio della Farmoplant che dette ad Augusto Puccetti, nel 1984, subito dopo il disastro di Bhopal, le etichette dei prodotti che la fabbrica realizzava per conto della Union Carbide. Ci ricavammo, a fatica, perche? allora non c’erano i mezzi tecnici di oggi e non avevamo computer e scanner, un volantino e un manifesto che riproducevano le etichette e denunciavano il silenzio e la mancanza di solidarieta? internazionalista dei la- voratori Farmoplant di fronte ai crimini della Union Carbide. Non so perche?, ma non mi ero mai fatto dire da Augusto chi fosse questo lavoratore che si era esposto al rischio di trafuga- re le etichette. Ora lo avevo davanti. E? anche venuto fuori che le foto che abbiamo pubblicato sul disastro della Farmoplant del 17 luglio 1988, del luogo dell’esplosione, le aveva scattate lui e ce le aveva fatte pervenire. Da questa circostanza e? nata l’intervista che segue”.

Ma chi era questo operaio sconosciuto di fede libertaria? Mauro non ne sapeva nulla o non mi aveva raccontato tutto? Chi o che cosa, davvero, lo aveva costretto a lasciare Massa e a cambiare identita?? Mancavano ancora troppi elementi anche solo per intuire il quadro.

L’intervista, di per se?, era un documento eccezionale, ine- dito, la prima testimonianza di un lavoratore della Farmo- plant mai raccolta. Marcello Palagi spiegava bene i motivi di questa eccezionalita? nelle premesse: “Per oltre trent’anni ho cercato, senza mai trovarlo, qualche lavoratore o tecnico Montedison-Farmoplant, per avere notizie dirette su quel- lo stabilimento e le sue produzioni, e per discuterne paca- tamente, ma non l’ho mai trovato. Fino a oggi. Riuscivi a parlare, con qualche rappresentante del consiglio di fabbrica o qualche sindacalista, ma capivi subito che, invariabilmente, cercava di fare l’amicone per convincerti che quella era la fabbrica piu? sicura e salubre del pianeta e che, senza, milioni di bambini del ‘terzo mondo’ sarebbero morti di fame; ma di operai e impiegati, neanche uno che si degnasse solo di rivolgerti la parola, se non per lanciare invettive e minacce. Ostili appena ti vedevano, dicevano che ci pagava la stessa Montedison alla ricerca di un pretesto per chiudere e licen- ziarli. Dopo il referendum dell’87, quando la popolazione della provincia, col 72% dei voti espressi, si dichiaro?, sen- za mezzi termini, per la chiusura della Farmoplant, dell’E- nichem e dell’inceneritore Lurgi, appena ti scorgevano, ti gridavano, arrabbiatissimi, che sarebbero venuti con tutta la loro famiglia a mangiare a casa tua: a qualcuno di noi sarebbe toccato qualcosa piu? delle offese, se non si fosse affidato alla velocita? delle proprie gambe. Dei tecnici, meglio non dire piu? niente. Dall’alto della loro ignorante sudditanza ideologica e scientifica, negavano anche l’evidenza dei fatti accertati, co- me l’avvelenamento della falda acquifera dopo la scoperta di un pesticida rimasto famoso da noi, il Trifluralin, in qualche migliaio di pozzi a valle dello stabilimento. Ma neanche dopo il disastro del 17 luglio 1988, dopo che perfino il consiglio di fabbrica aveva dovuto constatare che lo stabilimento non era gestibile in sicurezza e ne aveva chiesto la chiusura, e dopo che l’amministrazione comunale di Massa l’aveva decisa e si era aperta per i lavoratori – 386 dipendenti e circa 200 oc- cupati nelle lavorazioni indotte –, la prospettiva di una lunga cassa integrazione speciale, si e? trovato qualche lavoratore, tecnico, sindacalista disposto a parlare delle produzioni della fabbrica e di quello che vi era avvenuto nel corso degli anni”.

Ancora oggi, a distanza di tanto tempo, Palagi trovava quasi esclusivamente lavoratori e tecnici nostalgici, che ce l’avevano col movimento di allora: qualcuno continuava a sostenere che la fabbrica fosse stata sabotata dagli attivisti, per conto dei pro- prietari dei campeggi della riviera e che gli attivisti, in generale, fossero sobillati e pagati dagli operatori turistici per creare dif- ficolta? alla fabbrica e costringerla a trasferire gli impianti.

“I conti, con questa esperienza popolare, di lotta di massa e dal basso, libertaria e senza capi e strutture, non li ha fatti nessuno. Non li ha fatti la politica, cioe? i partiti che avevano troppo da perdere per le gravissime compromissioni con la Montedison a tutti i livelli; non li hanno fatti i tecnici ufficiali e istituzionali, che alla Montedison hanno offerto coperture e giustificazioni di ogni genere, fino all’ultimo, fino a permet- terle di fare le bonifiche in modi molto allegri e sommari e di ricorrere anche all’inceneritore che la popolazione aveva stabilito, col referendum, dovesse essere chiuso e smantellato. Non li hanno fatti le istituzioni che avevano voluto, soprat- tutto per insipienza, stupidita? e bassi calcoli elettorali, que- sta fabbrica, e l’avevano presentata alla popolazione, senza chiarire cosa avrebbe prodotto, come un’industria innocua e come una grande vittoria sindacale che garantiva un numero enorme di nuovi posti di lavoro al territorio. Non li hanno fatti neanche i lavoratori, che hanno difeso, per anni, il loro posto di lavoro, con i paraocchi, senza vedere i costanti malfunzio- namenti degli impianti, nascondendo e minimizzando il piu? delle volte i sistematici e numerosissimi ‘incidenti’ perfino ai tecnici dell’Asl, impedendo qualsiasi controllo da parte della popolazione sui metodi di lavorazione e sulla loro sicurezza, ignorando qualsiasi dubbio su produzioni che alimentavano un tipo di agricoltura chimicizzata che stava creando disastri alle colture di gran parte del mondo. Non volevano rendersi conto, sostenuti dai partiti e dai sindacati che farneticavano della chimica, gia? allora in crisi evidente, come volano dell’e- conomia locale e nazionale, che, alla fine, nel conflitto co- stante con la popolazione, lo avrebbero comunque perso, il lavoro, se non avessero lottato per renderlo compatibile con il territorio: senza porsi cioe?, come invece era possibile e av- veniva, proprio in quegli anni in altre fabbriche chimiche – ad esempio la Montedison di Castellanza –, il problema della possibilita? di intervenire nel merito delle produzioni, in modo da modificare o eliminare quelle pericolose e inquinanti. Non hanno lottato neanche per affermare e difendere la solidarieta? di classe, neanche di fronte a un disastro criminale come quel- lo di Bhopal, nonostante che la Montedison allora lavorasse proprio per la Union Carbide”.

Nei confronti della popolazione, per Palagi tutti i soggetti che avevano potere e diritto di parola in merito – amministra- zioni locali, partiti, sindacati, tecnici istituzionali e della fabbri- ca, consiglio di fabbrica e lavoratori –, avevano sempre assunto atteggiamenti di insofferenza paternalistica (“Ragazzo, lascia- mi lavorare che io le cose le so e tu no”), o di delegettimazione del movimento (“Siete pagati; siete fascisti; siete terroristi”, a seconda dei casi), fino all’insinuazione calunniosa che alcuni incidenti, come quello al magazzino del Mancozeb dell’agosto 1980 o quello al serbatoio del Rogor del luglio 1988, fossero stati provocati dai militanti del movimento. In altre parole, non si era mai cercato un confronto con la popolazione. Palagi non lo diceva, ma questo movimento avrebbe in ogni caso rappre- sentato l’anello di congiunzione tra le esperienze di democra- zia diretta e di attivita? politica di base degli anarchici e di Lotta continua, di cui in molti a Massa Carrara avevano fatto parte sin dal ’68, e l’embrione del movimento ambientalista italia- no. Un movimento cosi? forte e consapevole, a guardar bene, che nel 1987 riusci? a imporre alle istituzioni della provincia di Massa Carrara il primo referendum consultivo d’Europa per chiedere la chiusura della fabbrica.

“Il movimento parlava di lotta di classe, di necessita? di con- trollo delle produzioni e delle fabbriche da parte dei lavoratori e delle popolazioni esposte ai rischi delle attivita? tossico-no- cive, di primato dei diritti fondamentali e indisponibili come la salute; i lavoratori della fabbrica invece mettevano il giusto profitto del capitale e il lavoro al primo posto, consideravano la produzione, sempre e comunque, un fatto positivo per tutti in- distintamente, e parlavano, dell’inquinamento e degli attentati alla salute della popolazione, come di prezzi che inevitabilmen- te dovevano essere pagati al progresso. Il movimento parlava di agricoltura rispettosa dell’ambiente e delle specificita? locali, i lavoratori spacciavano per mezzi indispensabili per la lotta alla fame nel mondo, quei loro prodotti, sempre piu? sofisticati e che ormai da decenni, dai tempi della rivoluzione verde, si erano dimostrati gli agenti del dominio delle grandi multina- zionali nel campo delle produzioni alimentari, cioe? agenti della produzione della fame nel mondo”.

Per Palagi era certo comprensibile che chi, come i lavora- tori dello stabilimento e la classe politica e sindacale, portava la responsabilita? del sostegno cosi? acritico alla fabbrica avesse difficolta? – una volta subita la sconfitta politica, col referen- dum, e pratica, con l’esplosione del serbatoio di Rogor l’anno successivo al referendum – a parlarne, a ricordare, a fare un bilancio che, per quella parte, non poteva non risultare del tutto in passivo. Questo atteggiamento, secondo lui, aveva de- terminato l’incapacita? di comprendere la realta?: se adesso si era prodotta una classe operaia arresa o depressa, dei sindacati che mediavano a vantaggio dei padroni, dei partiti di sinistra che non riuscivano piu? a rappresentare i lavoratori, dei democratici che approvavano le svolte autoritarie del governo, lo si dove- va – almeno per quanto riguardava la nostra zona – anche alla volonta? di non confrontarsi ne? con l’esperienza di lunghe lotte popolari che avevano prodotto democrazia e partecipazione dal basso, ne? con le scelte politiche e industriali fallimentari e sbagliate della classe dirigente e sindacale nel suo complesso.

Fin qui Palagi sul suo diario di Facebook. Volevo cono- scerlo di persona e l’occasione si presento? il 20 febbraio del 2014, sempre presso la Sala della Resistenza di Carrara: presi la parola dopo di lui, in una serata di preparazione alla giorna- ta di mobilitazione nazionale in solidarieta? al movimento No Tav del 22 febbraio e dedicata alle nocivita? ambientali della Versilia dagli anni ottanta ai giorni nostri. Come arrivammo a questo incontro lo vedremo piu? avanti, cosi? come spieghe- ro? le circostanze che mi portarono a conoscere direttamente anche l’operaio intervistato da Palagi: ripensandoci adesso, ogni passo successivo fu la fatale conseguenza di quell’unica serata trascorsa, in via Ulivi a Carrara, in compagnia del mio “amico segreto” e dell’enigmatica storia di una famiglia in cui sentivo che si nascondeva la risposta a molte domande su questo “passato che non passava”: ma anzi, alla lettera, ancora minacciava di “trapassarci” in molti.

5.

“Ti ho mai detto di mio nonno Gardenio?”, riprese Mauro carezzando i baffi fra indice e pollice.

“Mi hai raccontato la sua drammatica esperienza di alpino in Russia, e poi ricordo che dopo l’8 settembre ha fatto il partigiano sulle nostre montagne”.

Era l’una passata al circolo la Capinera, qualche amico ci aveva salutato, mentre un paio di ragazzi ci avevano raggiun- to al tavolo. Tra loro, aveva fatto la sua comparsa Giovanni detto “Ludo”, un giovane con la barba nera scomposta, tutta sbuffi e riccioli, che gli saliva su fino agli orecchi travisandone i lineamenti; non alto, pareva in grande confidenza con Patri- zio. Ogni tanto la ragazza del bar ci sorprendeva alle spalle e ci annunciava che il locale era in chiusura, prendeva le bottiglie vuote e tornava con la nuova comanda: visto che il locale stava chiudendo, non pochi audaci pensarono bene di tirare fuori chi le sigarette chi il tabacco da rollare, come fossimo gia? sotto le stelle. Tra questi, anche Errichetta e Giovanni. Contagian- dosi a vicenda, come capita ai fumatori, avevano aperto sul tavolo davanti a loro due buste identiche di tabacco Pueblo. I discorsi, adesso, s’incrociavano austeri e sapidi insieme: era il classico royaume de jeunesse malinconico e divertentissimo, deviante e moralizzatore, che frequentavo da giovane e non avevo, in cuor mio, mai abbandonato ne? tradito.

“Non mi riferisco a questo”, preciso? Mauro. “Forse non ti ho mai detto che prima di partire soldato mio nonno Gar- denio faceva il cavatore”.

“Anch’io ho fatto il cavatore”, intervenne subito “Ludo”. Poi si mise comodo, accese il manufatto e la prese larga. Poiche? tutti gli altri lo conoscevano, si rivolse direttamente a me: “Non appartengo a nessun tipo di organizzazione ne? mai lo faro?, il mercoledi? dopo le sei di sera sono al circolo Fiaschi, ma se qualcuno prova disagio a entrarvi possiamo vederci al bar, in piazza o per strada. Voglio dire una sola cosa, perche? istintiva- mente odio l’autorappresentazione: io ho iniziato a interessar- mi alle problematiche della cave all’incirca all’eta? di sei anni; vergine di politica e ideologia, il problema che mi stava a cuore non era il precario equilibrio di un sistema carsico complessis- simo e la minaccia alle relative falde acquifere, il problema a sei anni era che mio padre tornasse a casa la sera...”. “Ludo” non prendeva mai fiato, non una pausa o un colpo di tosse. Era un fiume in piena, non potevo far altro che annuire e sorridere condiscendente, tanto non mi avrebbe permesso di fare una sola domanda. La sigaretta gli biancheggiava, spenta, tra le dita della mano che mulinava insieme alle parole.

“Poi sui vent’anni ci ho pure lavorato, in cava, e il problema e? diventato che sia io sia mio padre sia il mio migliore amico tornassimo a casa la sera. Lasciai il lavoro quando un blocco schiaccio? la gamba a un compagno sfiorandone altri tre. Per me era abbastanza. Per me solo il rischio a cui sono sottoposti gli esseri umani, per quanto consenzienti, varrebbe la chiusura immediata. Ma non bisogna confondere la caccia dei nativi americani al bisonte con lo sterminio dei cowboy d’oltreocea- no. Parlare di chiusura immediata e rinconversione e? solo una sbruffonata di chi mira a qualche consenso in piu? per sistemar- si con vitto alloggio e pensione, o di chi gode nell’essere il lea- der di un qualche movimento cazzuto, o di chi semplicemente ha trovato il modo di avere un sacco di likes su Facebook”.

Mauro annui? con convinzione. Anche Errichetta, soffian- do il fumo verso le stelle del soffitto dopo ogni boccata, aveva preso a sottolineare determinati passaggi argomentativi con ampi cenni del capo. Non capivo se ce l’avessero con qual- cuno in particolare.

“Il fatto e? che il distretto minerario e? pericoloso. Vi faccio un esempio nella speranza che riusciate a seguirmi: a Carra- ra, una folle lotta contro le polveri che sporcavano i lampa- dari della Carriona ha motivato la costruzione di un’arteria sotterranea che ha sicuramente incrementato la velocita? di estrazione e che, coincidenza fortuita, sbuca nei pressi della multinazionale Omya di Avenza e, soprattutto, ha convinto l’80% dei carrarini che le polveri sottili sono quel bianco che si deposita sui lampadari”.

Errichetta scoppio? a ridere: “Perche? non sai che cosa sono capaci di bersi i viareggini”, scherzo?. Anche Mauro rise.

“Ludo” concesse al suo piccolo pubblico un sorriso di rimando, e termino?: “Al contrario, io penso che i punti in co- mune con i cavatori siano tantissimi: per esempio, anche loro si ammalano di tumore; un camion di circa ventimila cavalli di cilindrata brucia un litro di gasolio per fare un chilometro, una ruspa molto di piu?. La concentrazione di motori diesel in questa zona, che per altro e? una conca dove l’aria ristagna, e? inverosimile: una ruspa brucia sette ottocento litri di gasolio al giorno! Il movimento No Tav, al quale va tanto di moda fare riferimento, non e? arrivato al taglio delle reti proponen- do alternative al treno, ma sensibilizzando la popolazione con tutta una serie di studi tecnici, a partire dall’inquinamento acustico per arrivare ai problemi geologici, quali la presenza di amianto e uranio. Noi, invece, stiamo trascurando tutto questo e alla fine si rischia di uscirne come quattro raccoglito- ri di fiori mezzo rincoglioniti che si risentono perche? gli viene rovinato il paesaggio. L’alternativa sono assemblee aperte a tutti, in primis ai cavatori e a chi ci lavora, trovare tecnici in grado di dimostrare le intuizioni logiche, rischiando magari per una sera di dover stare zitti e ascoltare chi conosce meglio di noi una determinata situazione”.

Errichetta aggiunse: “La questione del lavoro, del rapporto coi lavoratori, e? fondamentale. Noi, in Versilia, contro l’inceneritore Falascaia, abbiamo sempre cercato il confronto coi lavoratori della fabbrica e alla fine sono diventati nostri alleati”.

Ero stupito. Da quanto sapevo sulla ventennale vicenda del Falascaia di Pietrasanta impresa, sindacati e lavoratori avevano sempre fatto fronte unico contro i cosiddetti am- bientalisti, che poi erano dei comuni cittadini stufi di farsi lentamente ammazzare. Nulla di diverso da quanto era acca- duto dalle nostre parti.

“Ma i lavoratori si sono alleati con voi prima o dopo la chiusura dell’impianto?”.

“Dopo”, ammise lei serafica.

Sorrisi. “Be’, ma allora e? diverso... Non dovevano piu? di- fendere il posto di lavoro, ormai l’avevano perso”.

“Ti sbagli”, fece lei. Punto? gli occhi vispissimi nei miei: “Ce l’avevano con la dirigenza perche? aveva preso in giro anche loro, e con quel comportamento criminale non aveva dato alcun futuro alla fabbrica”. “Conosci la storia?”.

“So che ‘decimavano’, ossia dividevano sistematicamente per dieci i valori di emissione della diossina. La multinazio- nale Veolia, francese, aveva preso a impiegare un software apposito. Un atto criminale premeditato”.

“Non solo! Quelli sversavano rifiuti tossici direttamente nei canali li? intorno. I cittadini fecero degli appostamenti notturni e, grazie alla soffiata di un lavoratore che li avviso? della frode, poterono fotografare questo tubo installato illegalmente”.

“Dovremmo parlare di certe cose in un incontro pubbli- co, come quello di stasera”, dissi, “ma legato alle vicende del nostro territorio. Che ne dici, Patrizio?”. Per questa vicenda si erano infatti celebrati due processi, che avevano portato a patteggiamenti (per l’uso del software taroccato) e in seguito ad assoluzioni dai reati ambientali piu? gravi (a fine gennaio 2015). La Regione Toscana si era costituita parte civile, ma secondo le dichiarazioni (nella puntata di Teleriviera del 25 marzo 2015) di Daniela Bertolucci, storica attivista del comita- to per la chiusura del Falascaia, l’avvocato della Regione si era distinto per aver chiesto solo cinquecentomila euro di danni: non per le morti, i tumori, le malformazioni alla nascita, ne? per l’inquinamento dell’aria, del torrente Baccatoio e del ma- re della Versilia, ma perche? la condotta della dirigenza aveva provocato un danno alla Regione “nella misura in cui ha reso piu? difficile proporre nuovi impianti di termovalorizzazione”.

Mauro sgrano? gli occhi: “Io ballo solo all’estero”, scherzo?.

Poi, siccome dovette accorgersi della mia delusione, ag- giunse: “Se vuoi, posso girarti un po’ della documentazione che ho io e ne parli dove ti pare: a Viareggio, a Massa, a Carrara, vedi te”.

“Mi sembra un’ottima idea”, disse Errichetta, entusiasta: “Potremmo vederci con Andrea Cecchini e gli amici della Rete ambientale della Versilia. Loro sono molto attivi e po- trebbero darci una mano anche per il calcolo dei posti di lavoro alternativi che possono essere prodotti dalla politica dei ‘Rifiuti zero’, per esempio”.

“Ah, i ‘Rifiuti zero’...”, misi giu? un ghigno e una pausa. Aspettai di avere anche l’attenzione di Mauro e spiegai: “La nuova amministrazione, a Massa, ha addirittura dato la pre- sidenza dell’Asmiu, la nostra azienda dei rifiuti, a Rossano Ercolini, il ‘premio Nobel’ dell’ambiente 2013. Peccato che nello stesso tempo il Comune abbia aderito al progetto Ato Costa, il superconsorzio di gestione dei rifiuti che prevede il socio privato e conferimenti di rifiuti indifferenziati intorno al 40% del totale. Conferimenti destinati al contestatissimo ‘ter- movalorizzatore’ di Livorno. Un controsenso. Mi pare tutta propaganda”.

“Ti sbagli”, fece ancora Errichetta. “Ato Costa non si fa piu?. L’abbiamo fermata noi della Rete ambientale della Versilia con le denunce. Non possono fare un’azienda privata che si occupa di rifiuti, il referendum ha reso illegittime queste partecipazio- ni. L’acqua e i rifiuti devono essere gestiti dal pubblico”.

Non la sapevo cosi? lunga, sulla questione, ma mi pare- va che il progetto fosse tutt’altro che abbandonato. “Forse l’avete fermato”, dissi, “ma non mi risulta che i sindaci del consorzio l’abbiano ritirato o che il consorzio si sia sciolto”.

“Dobbiamo vigilare, certo”, ammise lei.

In quella, Giovanni “Ludo” si alzo?. “Vi saluto, sono stan- co, vado a casa”, disse.

Lo salutammo di rimando, mentre buttavo un occhio al cellulare: le due passate.

“Comunque vediamo se posso riassumere”, dissi a Erri- chetta. “La tua idea e? provare a mettere sul tavolo un po’ di progetti e di numeri occupazionali alternativi all’economia che gira ancora intorno al marmo. So che ci stanno lavoran- do anche altri gruppi di ambientalisti. Il problema e? che non si conosce con esattezza quale sia il numero complessivo di lavoratori tra occupati diretti e indotto. Quel che e? certo e? che gli occupati sono diminuiti abbastanza da rendere i costi sociali ormai drammaticamente superiori ai benefici”.

“Non solo e? crollato il numero degli occupati”, intervenne Mauro, “ma e? anche cambiata radicalmente la tipologia del lavoro. Mi spiego. Ormai per lavorare in cava bastano due-tre cavatori con un joystick. Mio nonno e? andato a lavorare in cava a quindici anni, come tanti, subito prima della guerra. L’ora- rio ufficiale era di otto ore, ma tra uno straordinario e l’altro, non sempre pagato, la norma era lavorare per nove, dieci ore. Oltre al tempo che occorreva per raggiungere la cava in quota, anche due ore di cammino ad andare e due a tornare. Non retribuite ovviamente. Comunque il lavoro era durissimo ma si guadagnava bene, bene per quei tempi intendo. Prendevano lo stipendio ogni quindici giorni, la ‘quindicina’, per qualcosa come venticinque lire al giorno. Spendevano alla bottega, al massimo, novanta lire; la domenica pigliavano il fiasco di vino, il pezzetto di carne. Siccome non c’era il dormitorio in cava, dormivano giu? al ‘poggio’ a pensione. Si pagava una lira per dormire e si spendeva, fra il pane e il companatico, sulle quat- tro lire al giorno. Sicche?, se uno guadagnava venticinque lire, gliene restavano venti. E il lavoro procedeva con lentezza”.

Mauro ne conosceva bene l’evoluzione: un tempo, il mar- mo veniva estratto abbattendo le grandi pareti bianche con l’esplosivo. Una tecnica che comportava, per la sua comples- sita?, una lunga e accurata preparazione. Durante l’esplosione e la successiva caduta la vasta parete si spezzava, dividendosi in tanti blocchi di diverse dimensioni.

“Questa era la ‘varata’”, spiego? il mio “amico ritrovato”. Ero felice di lasciarmi istruire, anche se molte cose gia? le sape- vo. “Uno spettacolo suggestivo, ma anche molto pericoloso, per chi vi prendeva parte. Potete vedere di cosa si tratta nel film Aut Out di Alberto Grossi”, prosegui?.

“Ho visto Alberto proprio stasera”, intervenni. “Era alla conferenza sul Tav”.

“Ma senti”, fece Mauro. “Lo avrei rivisto anch’io volen- tieri, quel corto e? un piccolo grande capolavoro. Ti fa capire molto bene che cosa e? diventata, oggi, l’industria estrattiva. Anche se il modo migliore per farsene un’idea resta quello di visitare una cava. La varata, per esempio. Un conto e? ve- derla nel film, che gia? fa impressione, e un conto e? averci a che fare da vicino. Il problema infatti non era, dal punto di vista del cavatore, l’esplosione in se?. Il problema era togliere il masso dalla montagna: bisognava liberarlo da quella parte di roccia resa inservibile dall’esplosione. Il tecchiaiolo aveva il compito di esaminare da vicino il marmo, liberandolo delle parti pericolanti: per farlo doveva calarsi, appeso a una fune, davanti al fronte di cava”.

“Dobbiamo proprio chiudere”, disse la ragazza del bar. Era comparsa alle nostre spalle, all’improvviso, e questa volta resto? piantata li? finche? non iniziammo ad alzarci.

“Andiamo fuori a fumare”, disse Errichetta, che non ave- va smesso un minuto di rollare tabacco. Sembrava prendesse in giro l’oste, ma forse era solo un modo goffo per smarcarsi.

“Esta? bien”, disse Mauro alzandosi. Insieme a lui, si alzo? anche Massimo, il militante trentino, dalla parte opposta del tavolo, e il resto dei compagni che erano rimasti con lui.

Chiedemmo il conto e improvvisammo una colletta, ognu- no mise quanto aveva. Davanti alla cassa, vicino all’uscita, furono abbracci e strette di mano. Uscimmo prima degli altri, e in tre che eravamo raggiungemmo a piedi piazza Cesare Battisti, subito svoltato l’angolo, con l’idea che se avessimo trovato aperto il bar del ristorante davanti al Teatro degli Animosi avremmo bevuto il bicchiere della staffa.

6.

Mauro riprese il filo del suo ragionamento non appena ebbe ordinato una grappa. “Comunque”, considero?, bagnandosi il baffo, “dalla fine dell’Ottocento la tecnica dell’esplosivo fu rimpiazzata quasi completamente dal filo elicoidale”. Errichet- ta volle saperne di piu? e Mauro le spiego? che il filo elicoidale era un dispositivo per il taglio del marmo costituito da una funetta formata da tre fili di acciaio, avvolti a elica e di lunghezza varia- bile, che poteva raggiungere i 1.500 metri per i grandi tagli. In un’ora di marcia un filo poteva segare, in media, sessanta metri cubi di pietra: veniva fatto scorrere a una velocita? di cinque, sei metri al secondo, e il taglio del blocco era alimentato da una miscela abrasiva di acqua e sabbia silicea.

“Mio nonno Gardenio mi ha raccontato di aver usato il filo elicoidale fin quasi al momento di partire soldato, appena prima della seconda guerra mondiale. Questo dimostra che nelle cave, specie in quelle piu? piccole, le tecnologie entra- rono molto lentamente. Per anni gli strumenti indispensabili del lavoro sono stati forza, coraggio, una buona dose di espe- rienza e la dinamite”.

“Quelli si? che erano uomini”, ghigno? Errichetta sorbendo allegra il suo cordiale.

“Puoi ben dirlo”, s’inorgogli? lui, dando forse a intendere che ne discendeva. “Dopo la varata entravano in scena i ri- quadratori, per esempio, che a suon di subbia e martello cer- cavano di dare una forma quadrata al blocco. Era un lavoro difficile, pesante, e quegli uomini dovevano avere una forza e una pazienza fuori dal comune. Mio nonno mi raccontava di aver conosciuto un vecchio che aveva lavorato ai tempi in cui il marmo lo segavano a mano. Ma ci pensate? L’avete mai vista una sega del genere?”.

Lasciai che Errichetta scuotesse la testa.

“Sapete come funzionava? Era una lama d’acciaio senza denti e veniva applicata su un telaio di legno manovrato per aria con le carrucole: due uomini da una parte e due dall’al- tra. Un lavorone. In un giorno se ne poteva segare quattro dita. Per segare un blocco ci volevano dei mesi! E non erano certo blocchi grandi come quelli che fanno ora, due metri per quattro, alti uno, ma blocchetti che si portavano in collo...”, rise. “E poi c’era il discorso del trasporto, ovviamente. Un capitolo a parte. Una volta riquadrati, infatti, i blocchi do- vevano scendere a valle. Il lavoro, anche qua, era tutt’altro che semplice...”. E ci spiego? come, ai tempi di Michelangelo, per portare a valle i blocchi di marmo, c’era soprattutto un modo: farli rotolare giu?, senza alcun controllo, sopra un “let- to” di detriti. Questo rudimentale metodo di trasporto, che si chiamava “abbrivio”, era talmente pericoloso che verso la fine dell’Ottocento fu vietato per legge. Ma prima di arrivare al trenino a vapore – la “ciabattona”, come l’avrebbero chia- mata –, c’era la “lizzatura”: “Sapete tutti, piu? o meno, come funzionava, un sistema vecchio di duemila anni: consisteva nel mettere i blocchi di marmo sopra una slitta ricavata da tronchi di faggio o di quercia e di farli scorrere verso valle. La ‘lizza’ era formata da diversi blocchi di marmo tenuti insieme da robuste corde di canapa, che servivano anche per far scen- dere lungo tutto il percorso l’intero carico”.

Alla lizzatura partecipavano in parecchi: era un lavoro di squadra davvero rischioso e Gardenio vi aveva preso parte di- verse volte. Davanti a tutti c’era il capolizza, che aveva il com- pito di controllare che la discesa procedesse per il meglio. Era un compito delicato, e veniva affidato all’operaio piu? esperto. Era lui che disponeva i “para?ti” sul terreno davanti alla lizza, e dava il segnale ai “mollatori” di allentare o stringere i cavi al momento giusto. “I para?ti, poi, non erano altro che robusti pali di legno circolari, che venivano aggiunti anteriormente, mano mano che il carico scendeva, consentendogli di scivola- re senza incontrare ostacoli. Un’altra figura molto importante nella lizzatura era appunto ‘l’uomo del piro’, chiamato anche ‘il mollatore’, che aveva il compito di mollare lentamente le corde in modo che il carico scendesse senza prendere velocita? e fare danni. La lizzatura era una delle fasi piu? rischiose del lavoro in cava. Se il carico si liberava dalle corde e prendeva ve- locita?, chi stava intorno veniva travolto. E questo, purtroppo, e? successo piu? volte”. E qui Mauro ci spiego? come, a parer suo, il sentimento genuino dell’anarchia, un vero e proprio “distillato apuano”, avesse potuto svilupparsi proprio tra questi sfruttati.

“Nel lavoro in cava”, prosegui?, “per esempio in quello del tecchiaiolo, si sperimenta la solitudine dell’individuo davan- ti alla morte, la sua irriducibile singolarita?; ma nello stesso tempo ci si rende conto di come la propria vita sia legata alle mosse degli altri, alle loro manovre e capacita? complessive, a una rete di solidarieta? e cooperazione, come per esempio avviene nella lizzatura”.

Il lavoro di squadra della lizzatura, in ogni caso, finiva nel momento in cui il carico arrivava al “poggio”, che era il luogo dove i blocchi di marmo venivano liberati dalle corde e caricati sui carri trainati dai buoi. Cosi? il marmo veniva portato a valle e da li? smistato verso varie destinazioni: Gar- denio ricordava una miriade di botteghe artigiane, scultori o segherie tra Carrara e la Versilia, tutto un rumoroso indotto che adesso non esiste piu?, spazzato via tanto dall’impennata della richiesta del carbonato di calcio, ovvero del marmo pol- verizzato, al posto dei blocchi per l’uso ornamentale, quan- to dall’incremento dell’export dei blocchi ornamentali sulla piazza estera, dove gli acquirenti hanno i loro opifici con costi di lavorazione ben piu? bassi.

“Il mondo che ha conosciuto mio nonno non esiste piu?. Col passare degli anni, le tecnologie hanno cambiato la cava. L’hanno resa piu? accessibile e soprattutto meno pericolosa. Meglio precisare: meno pericolosa rispetto a com’era una volta, perche? la sicurezza in cava e? un ossimoro, e gli incidenti accaduti anche di recente dimostrano che quello del cavatore rimane ancora il mestiere piu? a rischio”. L’uso degli esplosivi si e? fortemente ridotto, e il filo elicoidale e? ormai un oggetto da museo. L’avvento del filo diamantato permette di tagliare pezzi di monte a una velocita? incredibile: se una volta per fare un taglio ci voleva un mese e mezzo, lo stesso taglio si fa adesso in tre, quattro giorni. “Il filo diamantato non so se l’avete visto, e? fatto come una collana di perle: e infatti quei cilindrini che vengono infilzati sul cavo si chiamano ‘perline’, e sono dei piccoli diamanti artificiali, distanziati tra loro da minuscole molle. Unico grave inconveniente di questo meto- do di lavoro e? che le perline, quando si rompe il filo, partono come proiettili. Per questo gli addetti devono sempre stare a distanza, con la macchina in movimento”.

Quando approdarono in cava le pale meccaniche, gli escavatori sui cingoli e gli altri mezzi per il sollevamento dei marmi, furono messi da parte anche i buoi che ai tempi di Gardenio trasportavano i blocchi di marmo.

“Oggi una pala media solleva senza sforzo blocchi di tren- ta tonnellate, e in breve tempo, a seconda della perizia del manovratore, li carica sul camion. Anche le figure professio- nali della cava sono cambiate. Tecchiaioli e lizzatori non esi- stono quasi piu?; il capocava un tempo era l’indiscusso uomo di esperienza, che decideva tutto, mentre oggi e? affiancato da un ingegnere minerario che ha il compito di dirigere i lavori, e controlla se il ‘piano di coltivazione’ della cava viene eseguito correttamente. Gli operai, inoltre, sono diventati sempre piu? manovratori di macchine. Oggi, un bravo ruspista che sa si- stemare il blocco sul camion equivale a un gruppo di esperti lizzatori di un tempo”.

“In questo modo”, dissi io, “sono riusciti a portar via dal- le montagne, negli ultimi vent’anni, l’equivalente di un’era geologica. Puoi apprezzarne l’effetto anche su Google Earth, i forzati della mistificazione lo chiamano ‘white impact’, ‘im- patto bianco’. La tv tedesca, invece, una volta e? venuta qui per girare un documentario e l’ha definito ‘il piu? grave disa- stro ambientale d’Europa’”.

“A me e? sempre piaciuta la terminologia tecnica”, inter- venne Errichetta, seguendo un suo ragionamento. “I ‘piani di coltivazione’, gli ‘agri marmiferi’, la ‘coltivazione degli agri marmiferi’, neanche parlassimo di pomodori: la tecnica, co- me sempre, si finge neutra e invece e? schierata”.

“Tra le differenze di rilievo c’e? anche quella del tratta- mento economico: oggi, un operatore di cava specializzato ha una paga piu? che dignitosa. Se piove e? protetto dalla fiscalita? generale con la cassa integrazione per maltempo. Per non parlare del nero che entra in tasca anche a loro. Una volta capitava perfino che i cavatori, dopo una lunga e faticosa giornata di lavoro, andassero per boschi a raccogliere casta- gne o nel campo a coltivare l’orto, e magari con l’aiuto dei familiari rigovernavano le bestie”. E poi c’e? il discorso sicu- rezza. Inesistente. “Il lavoro in cava e? molto rischioso ancora oggi a causa degli incidenti. Rispetto al passato esistono ov- viamente norme di sicurezza maggiori, che prevedono l’uso di caschetti, calzature antiscivolo, occhiali protettivi, cuffie per le orecchie, senza contare il fatto che e? venuto meno il trasporto con la lizza, pericolosissimo a causa del peso dei blocchi ma anche dei pi?ri, dei para?ti e dei cavi, che spesso si rompevano e vibravano nell’aria, colpendo gli addetti intor- no. Mio nonno aveva visto morire parecchi compagni nei mo- di piu? diversi... Una volta era per la via di lizza, in fondo c’era un ponte per attraversare il fiume e si ruppe il cavo: un morto e due feriti, di cui uno grave che mori? piu? tardi. Un’altra volta l’incidente fu provocato da una varata. Avevano previsto la ‘mina’, come chiamavano l’operazione con la dinamite, per il sabato, e quando fu sparata la mina, il capo prese la corda per calarsi con le funi lungo la tecchia e controllare da vicino gli effetti dell’esplosione ma venne giu? una lastra e ‘lo spancio?’. In un’altra occasione, mio nonno mi racconto? di un cavatore che tirava l’argano, ma scappo? un ferro e lo trafisse”.

Per Mauro vedere i propri compagni di lavoro morire in quel modo, o restare invalidi per sempre, doveva essere un’e- sperienza drammatica, accettabile solo all’interno del para- digma di una cultura sacrificale.

“Oltre agli incidenti legati al taglio, al trasporto o all’e- splosione di mine, c’erano anche danni che si manifestavano piu? avanti nel tempo, ovvero quelli connessi all’inalazione di polvere di marmo, che contribuiva allo sviluppo di malattie polmonari come la silicosi, o quelli collegati al tremore conti- nuo delle mani e delle braccia, provocato dall’uso dei martelli pneumatici protratto negli anni. Altri tipi di problemi anda- vano a carico dell’apparato uditivo: i continui rumori, ma soprattutto le forti esplosioni, causavano danni permanen- ti. Ma erano tutte cose che non venivano neppure calcolate: le preoccupazioni dei lavoratori di allora erano legate alla stretta quotidianita? e alla semplice sopravvivenza. Gli uomini lavoravano come bestie e le donne si occupavano della casa e dei bambini. Anch’io mio padre l’ho visto sempre poco, in casa, come lui aveva visto poco mio nonno e mio nonno il suo. La dimensione del lavoro era totalizzante, una divinita? sanguinaria che richiedeva sempre nuove vittime. Come sol- dati in guerra: non erano nient’altro che sacrificabili soldati in guerra, che ogni giorno dovevano soltanto badare a come riportare a casa la pelle”.

Tratto da "La terra bianca" di Giulio Milani

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News » Il racconto della Domenica - Sede: Nazionale | Sunday 18 June 2017