"Viktor - Il Ciclo della Rinascita" di Francesco Leo

09 October 2016

VIKTOR
Il Ciclo della Rinascita

di Francesco Leo
L’ ALBA DI UN NUOVO GIORNO

La luna splendeva argentea sulle cime dei pini e dei monti, diradando le tenebre che la gelida notte portava con sé.
Nella fitta foresta tutto taceva, solo il fruscio delle foglie spo­state dal vento interrompeva quel solenne silenzio che regnava in­contrastato.
I muschi, le piante e i fiori vennero sospinti dalla debole cor­rente d'aria, mentre l’opaca luce della luna attraversava le verdi chiome degli alberi e irradiava il suolo tingendolo di platino.
All'improvviso la calma venne interrotta da un rumore lontano e continuo che si avvicinava sempre di più.
Il suono si fece più intenso e serrato come il rullare di un tambu­ro.
Una coppia di scoiattoli uscì dalla propria tana fissando sbigottita e impaurita in direzione del suono.
Mentre il rumore si faceva più vicino e intenso, il vento comin­ciò a sibilare come se anch’esso si stesse lamentando di quell'in­trusa presen­za.
I due scoiattoli restarono immobili finché non s’intravide emergere dall’oscurità, ove la luna non arrivava, una figura indi­stinta.
Gli animaletti rimasero a scrutare la lontana sagoma fin quando non guizzò come un fulmine oltre la fauna.
Un'ombra cavalcava rapida verso il limite del bosco come se stesse affrontando il tempo stesso.
Infine, dove gli immensi Colli Grigi si mostrava­no, la sagoma si fer­mò. Riprese fiato, scese dal nero stallone, e ordinò alla bestia di non muoversi da lì, allontanandosi a piedi con un fagotto rosso stretto nella mano sinistra.
S’incamminò tenendo stretto l'involucro al petto, mentre con l’altra mano reggeva un enorme spadone ornato da gemme fin sopra la lama.
Di fronte a lui si stagliava la prateria verdeggiante e silente, amman­tata dalla luce lunare.
L’uomo, illuminato dalla luna, riprese a camminare con andatura svelta nonostante i segni di stanchezza che portava in volto.
Ormai giunto in prossimità dei Colli Grigi, il terreno prendeva a in­clinarsi così tanto da complicare il raggiungimento della cima.
Lì si ergevano le mura di un castello diroccato dall’aria cupa e impo­nente: era come se nulla di buono potesse accadere oltre la soglia di quel sinistro maniero. L’uomo chinò il capo per osservare il suo torace muoversi freneticamente su e giù. «Gli anni devono avermi indebolito molto», pensò.
Aspettò di riavere fiato sufficiente per continuare. Il castello era a solo duecento passi da lui.
La figura non si scompose, continuava imperterrita il suo tra­gitto di­sposta a distruggere qualsiasi cosa avesse tentato di fer­marla. Sapeva che non poteva permettersi di sprecare energie proprio in quel momen­to ma, se si fosse rivelato necessa­rio, non avrebbe esitato a farlo.
Centocinquanta piedi, cento piedi: si avvicinava sempre di più al suo destino. A cinquanta piedi era ormai minima la distanza che lo separa­va dal massiccio portone in legno, ma qualcosa lo fermò afferrandolo per un braccio. Rimase im­passibile. Il cappuccio che gli copriva il volto si mosse sollecitato da un soffio di vento quasi impercettibile. Subi­to dopo, il nulla.
Il viag­giatore si voltò, osservò la mano fredda ed esile dell’entità che lo aveva bloccato: era uno scheletro.
La figura non morta fissava l’intruso attraverso le orbite cave e ine­spressive, aumentando la presa sul suo braccio. L'uomo non dava il mi­nimo cenno d'opposizione.
Le ossa dell’assalitore avevano perso il bianco di un tempo per la­sciare posto a un grigio scuro misto a fango.
Lo scheletro alzò un braccio e si apprestò a colpire l’uomo, che se ne stava ancora fermo al suo posto. «Crea­ture non morte», osservò. «Non sono comuni di questa zona. E così quello stolto crede davvero di difendersi con questi trucchet­ti? Patetico!»
L’uomo si chinò di scatto evitando il pugno dello scheletro e re­citò una formula magica. Le parole gli uscirono dalla bocca con la stessa na­turalezza dell'acqua che sgorga da un ruscello.
Lo scheletro non si rese conto dell'incantesimo dell'av­versario finché non vide una scintilla di luce nascergli dal pal­mo della mano. Un istan­te dopo, un bagliore blu lo polverizzò.
«Saresti comunque diventato polvere, un giorno», osservò l'incantat­ore con sarcasmo.
Arrivò di fronte all’ingresso e con la stessa formula spezzò in due il massiccio portone che cadde a terra con un enorme tonfo.
L’interno del castello era avvolto dalle tenebre più profonde, solo qualche raggio lunare filtrava attraverso le crepe del soffitto illuminan­do una piccola porzione di pavimento.
L'incappucciato fece qualche passo lento e silenzioso verso il fondo della sala, dove l'oscurità avvolgeva ogni cosa.
Arrivato quasi al centro della sala, si fermò per poi iniziare a elenca­re un'altra serie di parole incomprensibili.
Dopo pochi istanti dalle mani gli scaturirono fila­menti di energia magica di un blu intenso.
I sottili fili oscillavano lentamente, sospinti dal vento che fil­trava at­traverso degli spifferi nelle pareti. A un tratto, i magici fi­lamenti s'irri­gidirono del tutto e si staccarono dalle dita del loro evocatore, saettan­do in varie zone dell'immenso salone e sparendo nel buio.
In breve l'oscurità iniziò a dissolversi per lasciare il posto a un ba­gliore di un arancione intenso.
L'individuo misterioso prese ad avanzare seguendo il percorso crea­to dalla luce. Dopo qualche passo giunse ai piedi di una scali­nata. Sulla cima c'era un trono di marmo consumato dal tempo, proprio come l'in­tera costruzione.
L'uomo si fermò, un forte rumore lo prese di soprassalto e l'incante­simo di luce da lui evocato iniziò ad affievolirsi gradualmente.
«Cosa ti spinge a questo, Xemnath? Perché affrontarmi?», si udì nel buio in tono grave.
L'incappucciato fece una smorfia di disprezzo, attese qualche istante e parlò: «È finita, Zergh. Sono stato eletto dal Concilio Di­vino e giungo per porre fine alla tua tirannia. Dovresti saper­lo!»
«Sei un povero pazzo», rispose l'altro. «C'è forse qualcuno che può fermarmi?»
«Oramai nessuno può più nulla contro di me, il mio potere va oltre ogni tua immaginazione, e presto sottometterò l'intera umanità ai miei comandi. Non sarà un vecchio a impedirmelo né, tanto meno, i tuoi dei! Non è più tempo di combattere, per te. Vattene e sarai l'ultimo a essere ucciso, Xemnath!»
«No, Zergh, l'arma che ti porterà alla distruzione è qui con me e sarò io a brandirla. Fatti vedere!»
Dopo attimi di silenzio, Zergh proferì nuovamente parola.
«È qui con te?»
«Sì, è con me», ripeté.
Xemnath, facendo cadere il cappuccio dietro di sé, rivelò un volto segnato da una lunga cicatrice che gli divideva trasversal­mente il viso.
Aveva due occhi azzurri nascosti dai capelli argen­tei, scomposti come se fossero mossi al vento. Rinfoderò il suo spadone nel fodero che por­tava dietro la schiena e portò la mano destra sul fagotto che teneva stretto con quella libera. Estrasse ve­locemente una spada dall'elsa lavo­rata e decorata da rune e gem­me, poi la puntò dritta davanti a sé.
I simboli incisi sulla lama cominciarono a brillare uno dopo l'altro di un colore sempre diverso, poi, quando il settimo e ultimo simbolo si ac­cese di un bagliore smeraldo, la lama sprigionò un turbinio di colori che irradiò tutta la zona per miglia di distanza.
«Ma che?!», urlò Zergh da qualche parte mentre veniva investi­to dalla luce arcobaleno. «Di nuovo? Che razza di arma è?»
«L'hanno battezzata Arald, spada del destino: dovresti sapere anche questo!»
Tutto a un tratto la conversazione tra i due si fece sempre meno comprensibile e le parole andavano scemando fin quando la discussio­ne divenne muta. Anche l'immagine della sce­na iniziava a sfocarsi, ruotare vorticosamente per poi lasciare il posto al buio totale.
Nero ovunque. Poi, la fioca luce di una candela iniziò a diradare l'o­scurità, mostrando i vaghi contorni di una soffitta.

Diritti di Autore – Copyright ©: Francesco Leo
Illustrazioni di: Florinda Zanetti - Copertina di: Alessandro Calbini

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News » Il racconto della Domenica - Sede: Nazionale | Sunday 09 October 2016