COPYRIGHT: LA DIRETTIVA UE SCONTENTA EDITORI E UTENTI

08 April 2019

di Sara Sanna

Martedì 26 marzo, il Parlamento Europeo ha approvato - in via definitiva con 348 voti a favore, 274 contrari e 36 astenuti – la direttiva europea sul copyright. Adesso il testo, frutto di più di tre anni di contrattazioni e numerose modifiche, l’ultima delle quali in seno ai negoziati fra il Parlamento Europeo e il Consiglio molto rilevante, necessita di un passaggio formale del Consiglio e della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale — non dovrebbe volerci più di un mese — per poi essere recepito entro due anni dai Paesi membri. L’Europa ha iniziato a lavorare a un aggiornamento delle regole sulla protezione del diritto d’autore nel 2016: il testo precedente risaliva al 2001, quando Internet, e soprattutto le grandi piattaforme, non avevano ancora scompaginato del tutto le modalità di distribuzione e accesso ai contenuti.

Perché si discute ancora così tanto?
Ci sono in gioco interessi ed equilibri importanti. Da una parte quelli degli editori di contenuti (giornali, case editrici, case discografiche, case cinematografiche, ecc), dall’altra quelli delle piattaforme come Google e Facebook che si spartiscono gran parte del mercato della pubblicità online. In Europa vale 48 miliardi di euro all’anno (dati Iab Europe del 2018 sul 2017) anche grazie alla distribuzione dei contenuti altrui. I primi non hanno sufficiente potere contrattuale al tavolo con i secondi — value gap è il termine che indica il gap, appunto, fra i diritti pagati dalle piattaforme gratuite e quelli riconosciuti da quelle a pagamento come Spotify (che ha altrettanti problemi con gli autori, a dire il vero). I secondi hanno già investito sia su soluzioni tecnologiche (il noto ContentID di Youtube, ad esempio) sia in nuove assunzioni per monitorare quanto viene caricato sulle loro bacheche. Il difficile obiettivo a cui tendere — sia se il problema è il mancato rispetto del diritto d’autore o la pubblicazione in diretta di una strage, come nel recente caso della Nuova Zelanda — è l’intervento prima che il contenuto vada online, a fronte di una ragionevole certezza (informatica) che violi le regole. Imporlo per legge, lamentano i big del tech, rischia di stravolgere il loro funzionamento e la pubblicazione autonoma, massiccia e costante da parte degli utenti. Da parte loro, gli editori rivendicano il diritto di monetizzare gli sforzi e gli investimenti economici e creativi del loro lavoro senza dover rinunciare ala ripetitività dei rimbalzi caratteristica della diffusione online.

Quali sono i problemi principali?
Sono contenuti nell’articolo11 (che nella versione finale del testo è il 15) e nell’articolo 13 (diventa il 17). Quest’ultimo, come spiegavamo sopra, rende le piattaforme responsabili di quanto viene caricato, senza richiedere esplicitamente alcun monitoraggio preventivo. In sostanza, per ospitare contenuti protetti dal copyright, i vari Youtube e analoghi devono accordarsi con i detentori dei diritti e soddisfare le loro richieste. Se non lo fanno, dice l’ultima - e molto ammorbidita- versione devono dimostrare di aver compiuto «i massimi sforzi» per riuscirci e per scongiurare ulteriori caricamenti e devono agire «tempestivamente» per rimuovere il materiale illecito. Confini labili, troppo, sia per i sostenitori della direttiva, per i quali non ci sarà alcun cambiamento reale, sia per i detrattori, preoccupati per la scarsa chiarezza e le zone grigie del testo. Escluse dall’obbligo di contrattazione ed eventuale rimozione le caricature, le parodie o le citazioni: Gif e meme sono quindi salvi (anche se sarà difficile insegnare alle macchine come riconoscerli).

Cosa c’entrano giornali?
I giornali rientrano in quanto previsto dall’ex articolo 11 ora 15. L’obiettivo iniziale della direttiva era quello di imporre a chi usava estratti (avrete letto e sentito il termine snippet) degli articoli — ad esempio gli aggregatori di notizie come Google News — di pagare i detentori dei diritti. Gli editori di giornali. Anche questa voce è stata parecchio ammorbidita: non bisognerà pattuire alcun compenso per «singole parole» ed «estratti molto brevi». Ancora una volta, definizioni vaghe: «estratti molto brevi» ridà il manico del coltello a chi propone le anteprime.

Le proteste di Wikipedia
Come Google News, Wikipedia cita articoli e indirizza alla loro fonte originale. A fine marzo, la versione italiana non è stata accessibile tutto il giorno, come non lo erano state quella tedesca e danese, fra le altre. Proteste simili hanno caratterizzato l’intero dibattito e proseguono nonostante le modifiche apportate al testo e l’esclusione delle enciclopedie online che non hanno fini commerciali. Maurizio Codogno, portavoce di Wikimedia Italia, aveva detto al Corriere di ritenere ancora pericoloso l’articolo 11 «perché si rivolge a non meglio definiti prestatori di servizi della società dell’informazione, perché Wikipedia non ha fini commerciali, ma la sua licenza prevede il riuso commerciale; e perché non viene esplicitato che si può riprodurre il titolo degli articoli linkati». Secondo Codogno sarebbe stato inoltre meglio parlare di assenza di «fini di lucro» più che di profitto o commerciali.

Con le nuove regole i nuovi Google e Facebook faranno più fatica a nascere? 
Altro tema molto discusso. Nell’ultima versione la direttiva tutela le startup con meno di tre anni, un fatturato annuale inferiore a dieci milioni di euro e un traffico mensile medio di visitatori unici inferiore a cinque milioni: non devono vigilare su alcunché, ma devono reagire «tempestivamente» alle segnalazioni dei detentori dei diritti e fare i soliti «massimi sforzi» per ottenere le autorizzazioni alla pubblicazioni e impedire l’ulteriore caricamento del materiale segnalato. L’identikit degli esentati è molto specifico e non comprende le medie imprese, o le piccole attive da anni.

Dobbiamo preoccuparci per il futuro di Internet?
Prendete il vostro smartphone o quello di un amico o un’amica abbonato/a a Netflix. Aprite una puntata qualsiasi di una serie tv e provate a fare uno screenshot, per poi inviarlo a qualcuno su Whatsapp, scriverci sopra un frase scherzosa e condividerlo su Instagram o semplicemente tenerlo fra le foto del vostro telefonino. Fatto? No. Non si può. L’unica immagine che sarete riusciti a salvare sarà uno sfondo nero. Questo è un ottimo esempio di come la protezione del diritto d’autore abbia già modificato alcuni gesti diventati automatici nei primi anni di sviluppo del digitale. È inevitabile - come lo sono gli escamotage per aggirare l’ostacolo che spuntano come funghi con una banale ricerca - Netflix, ma non solo, adotta una serie di tecnologie per impedire che gli utenti catturino immagini o registrino i video per cui spende dieci miliardi di euro all’anno. Potrà anche risultare fastidioso nel momento in cui si cerca di compiere un’azione familiare, ma è inevitabile. Netflix non è gratuito, e non è Internet. Youtube è gratuito, ospita materiale pubblicato dagli utenti, ma come dicevamo ha anch’esso già iniziato a cambiare le abitudini che aveva contribuito a creare: per citare una notizia recente, i cosiddetti creator si sono messi a cantare a cappella le canzoni importate dall’applicazione TikTok, per (provare a) non violare i diritti delle etichette con cui la piattaforma ha accordi. Anche Youtube, come Netflix, non è Internet, ma con gli analoghi colossi coincide ormai con essa per accessi e tempo speso. Internet, l’Internet mediata dalle società private, sta già cambiando. Tutto sta a capire chi, quando e come deve decidere in che modo, e affinché l’unica economia in salute non sia quelle delle piattaforme e senza snaturarne le caratteristiche che permettono a tutti di esprimersi liberamente online.

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