Celentano-Mogol, il verde che non c’è più
Celentano-Mogol, il verde che non c’è più
di Giovanni Curatola
Via Cristoforo Gluck e via Celeste Clericetti, zona Nord-Est di Milano. La prima a pochi metri dal sottopasso della stazione Centrale, la seconda a un tiro di schioppo da quella di Lambrate. Un tempo strade di estrema periferia, ed oggi inglobate in piena città, rispetto alla fine degli anni ’40 e gli inizi del decennio successivo hanno visto mutare profondamente la propria fisionomia e tutto il contesto adiacente. Fra i pochi edifici abitativi ancor oggi identici ad allora, ci sono quelli dei civici n.14 in via Gluck e n.38 in via Clericetti.
Nulla di anomalo, se non fossero stati la culla d’infanzia rispettivamente di Adriano Celentano e di Giulio Rapetti (in arte, Mogol). Ma, soprattutto, se i due artisti non avessero attinto a quegli edifici e alle rispettive strade su cui quella case stesse insistono, per sfornare due capolavori di nostalgia ecologica e d’infanzia prepotentemente diventati patrimonio della musica italiana: “Il ragazzo della via Gluck” e “I giardini di marzo”.
Nel testo del primo, subito famoso nel 1966 quando uscì, grazie anche alla sua cantilena assai orecchiabile e facilmente riproducibile da tutti su chitarra (nulla di più dei 4 accordi del giro di “do”), Celentano trasferisce quella “strada (un tempo) fuori città” dove c’era l’erba e si passavano ore “a piedi nudi a giocare nei prati”, mentre alle spalle s’udiva il fischio dell’“amico treno” che entrava o usciva dalla stazione Centrale. Vi trapianta anche il suo trasloco in un’altra via di Milano, più centrale, episodio vissuto come autentico dramma a dispetto degli amichetti di quartiere che ne vedevano invece aspetti solo positivi (“là troverai le cose che non hai avuto qui… potrai lavarti in casa senza andar giù nel cortil…), invidiandolo non poco. Oggi la palazzina di via Gluck n.14, pur soffocata dal “cemento” che prima non c’era, è la stessa di allora. Solo ristrutturata ed imbiancata. Ospita una dozzina di appartamenti, perlopiù abitati da immigrati che, pur non potendo più rincorrersi sui prati, restano “gente tranquilla che lavora(va)” e che fanno ancora largo uso di biciclette.
Stesso struggente rammarico per gli spazi verdi che furono, e che negli adolescenti simboleggiavano un Eden che non immaginavano sarebbe andato perduto con la futura cementificazione selvaggia, lo ripropone in testo e musica, nel 1972, Mogol, che ne affida la voce a Lucio Battisti. E che, più di recente, dirà: “Sono nato in una via di frontiera, l'ultima della città e la prima della campagna. I prati e i campi di grano, che sono stati il pavimento della mia vita, sono scomparsi. Via Clericetti è oggi una via qualunque. Nemmeno un papavero a ricordare la mia infanzia.” In quella strada, o meglio sui campi di quella strada, negli anni ’50 Mogol bambino scorrazzava spensierato. Tre volte al mese passava da lì il carretto del gelataio (“Il carretto passava e quell’uomo gridava: gelati”), i bambini correvano in casa da mamma per racimolare qualche spicciolo ma spesso riscendevano in strada a mani vuote (“al ventuno del mese i nostri soldi erano già finiti”). Il ricordo dei vestiti della madre (“il più bello era nero con i fiori non ancora appassiti”) e dei libri che i ragazzini vendevano appena uscita da scuola, completano i primi versi de “I giardini di marzo”, intrisi d’amarcord per poi virare, nel ritornello e nella strofa successiva, in turbamenti sentimentali e caratteriali sempre vissuti dall’autore in prima persona ma più distanti da nostalgie prettamente paesaggistiche e familiari.
Per chi, con un paio d’ore libere a disposizione e il piacere di tuffarsi nella Milano che fu, vuol unire queste due vie a piedi e senza mezzi pubblici, come ha una volta fatto chi scrive, non ha che da percorrere in non più di 45 minuti i 3 chilometri che le separano. Per tale tuffo naturalistico è però consigliata, anzi necessaria, una robusta dose d’immaginazione. Per scorgere, tra il cemento prima inesistente, i luoghi in cui i piccoli Celentano e Mogol giocavano sereni (“dove c’era l’erba ora c’è una città”). Dove oggi i treni in lontananza non fischiano più e gelati e libri usati non si comprano più in strada.
Testo e foto di Giovanni Curatola
Video https://youtu.be/iVa4WeZ3wJE?si=_myGf_NBjMtACg-0
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