Prassi singolari alle frontiere dell'Est...17/12/2025

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Prassi singolari alle frontiere dell'Est...17/12/2025

di Giovanni Curatola

Roszke, modesto e sonnolento paesino di 3.000 anime sito all’estremo meridionale della Grande Pianura Ungherese, è l’ultima fermata dei treni diretti in Serbia. Il nostro convoglio, partito una mezzoretta prima sotto un cielo limpido da Szeged coi suoi 3 vagoni, e subito dopo immersosi in una folta nebbia, si arena lentamente intorno alle 15.15 pochi metri dopo l’edificio giallo ocra della stazioncina.

Già strategicamente appostata ad ogni apertura di inizio e fine vagone, una dozzina di uomini in divisa mimetica blu, berretto di lana fuori ordinanza (chi verde, chi grigio, chi blu), pistole e manette al cinturone, sale lesto sul treno. Ed altrettanto rapidamente, come da procedura evidentemente già ben collaudata, un agente resta a presidiare dall’interno l’uscita mentre gli altri due iniziano i controlli dei passaporti da un’estremità e dall’altra, fino a convergere così a metà vagone. Sono le guardie frontaliere serbe. Rigide in apparenza, spicce nei modi ma abbastanza benevole nel dispensare sorrisi poi, a controllo avvenuto e passaporto restituito (una donna è addetta ad apporvici il timbro d’entrata).

Unici a non venire ispezionati, almeno sul nostro treno, sono due ragazzi. Scendono qui a Roske, non necessitano dunque di alcun controllo ai documenti. Né d’altronde le guardie serbe potrebbero imporlo a chi resta comunque in territorio ungherese.

Horgos, è la scritta del timbro appostacci in caratteri cirillici sul passaporto. La Serbia usa infatti da sempre l’alfabeto cirillico come Russia, Bielorussia, Ucraina, Macedonia, Montenegro e Bulgaria, e questo, unitamente ai campanili delle chiese a cipolla e al culto ortodosso dei paesi sopra menzionati, ce la rende una piccola Russia, aggiungendo quel tocco esotico d'oriente che cerchiamo.  

Ore 15.50: terminati i controlli al modico prezzo di una donna portata via da due agenti (il motivo non sembra interessare a nessuno, tantomeno noi), il convoglio riparte col resto degli agenti a bordo. Quattro chilometri dopo, ecco una delle frontiere più fortificate d’Europa. E’ esclusivamente ferroviaria, e il transito da lì è così rapido che dal treno non riesco a fotografarla. In pratica, in mezzo a un alto, robusto ed elettrificato reticolato si apre un cancello scorrevole, presidiato e anch’esso pieno di filo spinato giusto lo spazio e il tempo (saranno 5/10 secondi, non più) per il passaggio del treno. A fortificare ulteriormente questa barriera ha contribuito - dall'altro lato - anche il premier ungherese Orbàn qualche anno pima, deciso a fermare in questo modo le ondate di migranti sbarcati in Grecia e Albania che attraverso la via balcanica miravano a raggiungere l’Occidente.  

Quanto a noi, vedere immediatamente risigillata alle nostre spalle la porta da cui il nostro treno è appena entrato in Serbia aumenta adrenalina e curiosità. Siamo nella Vojvodina, la parte più settentrionale e pianeggiante di in un paese esterno all’Unione Europea, fortemente filo-russo (molte bancarelle hanno gadjet raffiguranti Putin) e anti-Nato, dove infine l’euro è una moneta usata solo non nei grandi alberghi e in aeroporto. Amen. Qui si usano i dinari: ad 1 euro ne corrispondono circa 115. Banconote belle e colorate, anch’esse profumano d’oriente.

Inghiottito dalla nebbia, e superato il paesino di Horgos, il convoglio procede per Subotica, prima città serba dove si arena alle 16.25, consentendoci nella breve coincidenza per Belgrado di cambiare un po\' di monete. E’ adesso buio fitto, come lo è alle 16.30 in inverno in tutta la Serbia. Come a Berlino, sebbene a ben altre latitudini.

Altra annotazione sulle frontiere serbo-croate, per quanto osservato in bicicletta.  Che fra serbi e croati non corra buon sangue è cosa nota. Dopo la dissoluzione della Jugoslavia (1991-92) i serbi, trovatisi stavolta in posizione preminente, si sono ferocemente vendicati su croati e “bosniacchi” dei massacri subiti durante la II Guerra Mondiale dal regime filo-nazista croato di Ante Pavelic. La Nato, intervenuta tardivamente bombardando la Serbia ha faticato non poco a calmare la situazione, e sotto la cenere cova ancor oggi astio da entrambi i lati.  

Quello che notiamo è che mentre due frontiere si trovano solitamente una dopo l’altra, riducendo a pochi metri la “terra di nessuno” e potendo al limite i frontalieri di entrambi i paesi colloquiare e scambiarsi informazioni, pur se non tenuti a farlo (come italiani e svizzeri a Ponte Chiasso, o finanche polacchi e russi a Mamanovo e a Grzechotki), qui no. In questo angolo d'Europa serbi e croati mantengono rigorosamente distanti le proprie frontiere (grigie quelle serbe, azzurre quelle croate). Almeno dove siamo passati noi in bicicletta. Quella di Cot, sopra Sid, dista infatti 600 metri da quella croata di Principovac, superata la quale si è in Unione Europea, i cellulari prendono e soprattutto le chiamate non hanno prezzi esosi. Tornando dall’altro lato in Serbia, dopo Ilok, paese più orientale della Croazia, la musica non cambia. Anzi si, perché si lascia la Croazia alla frontiera di Prijelaz, prima del grande ponte su Danubio. Il  ponte, di fatto, fa da "terra di nessuno", essendo la frontiera serba ben 2 km più avanti, oltre il ponte, e col grande fiume adesso alle nostre spalle.

Sulla biciclettata che è poi proseguita da Backa Palanca a Novi Sad (seconda città serba, che contrariamente a Belgrado non ci ha entusiasmato particolarmente), spesso costeggiando il Danubio, si rimanda ad altra sede. Preme comunque qui accennare che nel paesino povero e arretrato di Begec, riposa l’ex tecnico della Sampdoria Vujadin Boskov. E’ stata una scoperta assolutamente casuale, così nel piccolo cimitero senza recinto, ai bordi di una strada campagnola, abbiamo impiegato poco tempo ad individuarne la tomba. E a rendere così un breve omaggio ad uno dei personaggi più eclettici e simpatici del calcio che fu.

Foto e video liberi da copyright
Testo e foto di Giovanni Curatola
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