Amore dato e ricevuto - Il lascito dei Beatles7/4/2020

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Amore dato e ricevuto - Il lascito dei Beatles7/4/2020

di Giovanni Curatola

Cinquant’anni fa (era il 10 aprile 1970) un’intervista a Paul McCartney pubblicata sul quotidiano londinese Daily Mirror dava ufficialità a quello che si sapeva già da un pezzo ma che milioni di fans in tutto il mondo si rifiutavano, fino a prova contraria, di credere: i Beatles non esistevano più.

Sull’ultimo periodo della band, chi scrive ha già dedicato in questa testata 4 pezzi:

1) gli aneddoti della celebre copertina del loro ultimo album “Abbey Road(https://www.ilgiornaledelricordo.it/diari/d578/musica__leggende_e_strisce_pedonali)

2) Let it be”, album inciso prima ma uscito dopo (https://www.ilgiornaledelricordo.it/diari/d648/storia_di__let_it_be___che_poi_furono_2_)

3) l’originale concerto sul tetto che concluse le sue travagliatissime sessioni (https://www.ilgiornaledelricordo.it/diari/d633/i_beatles_e_quell_insolito_concerto_sul_tetto)

4) un particolare brano di quell’album (https://www.ilgiornaledelricordo.it/diari/d662/_the_long_and_winding_road___il_capolavoro_triste_di_mccartney).

Tema del presente articolo è invece “Abbey Road”, il canto del cigno del gruppo, e il suo lascito morale. L’ultimo sussulto per finire in bellezza e zittire, possibilmente con capolavori, le numerose critiche delle band di nuova generazione che consideravano i Beatles ormai in profonda crisi nei loro rapporti umani (terribilmente vero) e musicalmente sorpassati (assolutamente falso). Così, per quei 2 mesi di lavorazione all’album (luglio e agosto 1969), i 4 Beatles riuscirono ad accantonare litigi, gelosie e dissapori interni per ritrovare l’armonia degli anni migliori necessaria a sfornare l’ultima loro opera, il loro testamento musicale. “L’album “Abbey Road” – dirà il loro produttore George Martin - riuscì così bene perché tutti quanti avevano capito che quello che stavano mettendo in scena era l’ultimo atto di quell’indimenticabile avventura”. Così, al ritrovato gusto di divertirsi dei tempi andati che li aiutò a dare il meglio di sé in un clima di estrema naturalezza, ciascuno dei 4 unì più considerazione per i “colleghi”. Soprattutto l’accoppiata Lennon-McCartney, da sempre forza trainante del gruppo, diede finalmente agli altri 2 lo spazio che meritavano, e che questi ripagarono con autentiche meraviglie come “Something”, “Here comes the sun” (George Harrison) e la vivace “Octopus’s Garden” (Ringo Star), qualcosa di simile a una ballata country che, entrata in testa, non esce più.

Se album come Help e “Rubber Soul erano stati i primi boom, quelli che fecero scoppiare in tutto il mondo la “beatlemania” (fanatismo di massa per un gruppo musicale, come mai prima nella storia) e i successivi “Revolver” e “Sgt.Pepper's Lonely Hearts Club Band” gli album della definitiva consacrazione della band nell’olimpo della musica, “Abbey Road” fu considerato da buona parte della critica l’album più bello e più maturo. Nato dal fatto che tutti e 4 sapevano, come detto, che il capolinea tante volte rimandato più in avanti era ormai giunto, e che quest’album sarebbe stato stavolta davvero l’ultimo. Era in fondo proprio ciò che volevano, e che li stimolò a tirar fuori da se stessi quanto di meglio sentivano (ed era sempre tanto) di poter ancora dare. Come una squadra di campioni che, giunta a fine ciclo, pungolata nell'orgoglii si infiamma e spende tutta se stessa per un ultimo trofeo con cui voler essere ricordata.

Era stato McCartney a chiedere al produttore George Martin (era giugno del 1969) di “registrare un ultimo album come facevamo una volta" per chiudere l'era del sogno e aprire quella del mito. “E così - riporta il giornalista Maurizio Ermisinoi 4 tornarono tra le mura protettive di Abbey Road, dove avevano registrato i loro dischi migliori. E accadde il miracolo: i Beatles, tornarono ad essere i Beatles, a registrare senza litigi e discussioni, tornarono a divertirsi. Gli studi di Abbey Road sprigionavano sicurezza, vibrazioni positive, la musica dei Beatles aveva ritrovato la magia. Anche John Lennon, con la testa già altrove da mesi, suonò come non faceva da tempo. Ma tutto questo aveva una ragione, probabilmente. “Sapevamo che questa era la fine” - avrebbe dichiarato George Martin – ed era come se ci fosse un tacito accordo: facciamola nel miglior modo possibile”.

“Pochi gruppi – si legge poi in “Pepperland” - hanno avuto la lucidità di chiudere la loro carriera con una canzone intitolata "The End". Purtroppo, ancora una volta, i Beatles persero interesse per il progetto prima di quanto i fan vorrebbero credere, e l'affascinante idea di chiudere con “The End” non resistette alla tentazione commerciale di Lennon di recuperare mesi dopo “Let It Be”, rendendo di fatto “Abbey Road” il penultimo, e non l'ultimo, album dei Beatles”.

“Nessuno può contestare il prezioso contributo dato dagli altri 2 Beatles, raramente così alto nel contesto di un intero album. George mostra al mondo la sua raggiunta maturità con 2 canzoni consacrate da Lennon come le migliori dell'intero disco. “Something” in particolare, oltre alle lodi che merita, impedisce che l'album sia privo di una vera love ballad. Ringo fornisce “Octopus's Garden”, che alleggerisce l'atmosfera di un lato A che ospita gli intensi contributi lennoniani”.

E’ “Come Together” ad aprire “Abbey Road”: “Con quel suo incedere lento, sballato, sexy – scrive Ermisino - è la canzone perfetta per aprire un disco. È una canzone che si presta anche a doppi sensi: “mettiamoci insieme” (messaggio politico) ma anche “veniamo insieme” (riferimento al sesso)… Ma Lennon portò in dote anche al nuovo disco dei Beatles la potente “I Want You (She’s So Heavy)”, altro brano carico di desiderio in puro stile Lennon, tra blues e hard rock, da alcuni critici considerato il primo pezzo heavy metal della storia”. Sempre di Lennon è “Because”, ispirata da Yoko Ono che suonava Beethoven al pianoforte. Paul McCartney, sempre accusato di voler fare la primadonna oscurando gli altri, stavolta contribuì ad “Abbey Road” con 2 soli brani: “Oh, Darling!”, canzone un po' rétro ma suggestiva, e “Maxwell’s Silver Hammer”, suo pupillo nonostante Lennon ed Harrison la considerassero una solfa per vecchiette.

La struttura del lato B dell’album prevedeva un “Long Medley” fatta di spezzoni di vecchie canzoni incompiute rimaste nel cassetto e inconsueti arrangiamenti che le legavano le une alle altre. “La suite – riporta sempre Ermisino - inizia con “You Never Give Me Your Money” (accenno ai loro recenti dissidi) e continua con “Sun King”, “Mean Mr Mustard”, “Polythene Pam”, “She Came In Through the Bathroom Window”, per raggiungere il suo apice con “Golden Slumbers” e “Carry That Weight”. È una partita tra i due, è Lennon-McCartney allo stato puro, sono i Beatles di sempre”. Il risultato però era una mezza schifezza per John Lennon, che diceva di essere un musicista rock e di non essere portato per queste raffinatezze. Era invece una meraviglia sia per Paul McCartney che il produttore George Martin. La differenza di vedute si rifletterà poi sulle opinioni della critica.

Finite le registrazioni di “Abbey Road”, inclusa la celebre foto di copertina sulle strisce pedonali fuori lo studio di registrazione, ognuno tornò a dedicarsi ai suoi progetti. I Beatles non esistevano più, ma con quest’ultima “reunion” non avevano lasciato più nulla di incompiuto. Avevano finanche dato un epitaffio finale alla loro incredibile, decennale storia. L’avevano incisa alla fine di “The End”, la canzone che chiudeva il medley (e che doveva essere l’ultima dell'album, se non fosse stata per la breve “Her Majesty” scivolata a fine medley quasi per caso in fase di montaggio). Diceva: “And in the end the love you take is equal to the love you make (E, alla fine, l’amore che ricevi è uguale all’amore che dai“). E fa bene illudersi sia sempre così...

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