Dimensione cristiana nel linguaggio artistico e storico religioso dell’uomo27/4/2020

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Dimensione cristiana nel linguaggio artistico e storico religioso dell’uomo27/4/2020

di Mariano Vitale *

Da Cybele, dea dei santuari e caverne della Frigia, a Hypta, che dominava sui monti alti e soleggiati, a Cotytto o Bendida, che dimorava nei luoghi ombrosi e nella caverne: espressioni dell’uomo che cerca un collegamento, un re-ligare con qualcosa che sia all’origine di tutte le creature ed anche di se stesso. Un homo che diventato sapiens, e dopo essersi imposto sulle altre specie simili, alza lo sguardo verso il cielo e che 20.000 anni fa pensa ad una statuetta antropomorfa, di poco più di dieci centimetri, come la Dea Madre Terra (Venere di Willendorf), le dedica cerimonie, le offre sacrifici per la sua fertilità e generosità. L’uomo crede, dunque offre, e cerca di partem-capere, di offrire ma di ricevere forza, come nell’antica Tracia, ove in un’epifania rituale il figlio della Dea della Natura, un toro, veniva squartato e mangiato crudo per poter dare la sua forza al popolo. Ma subentra un elemento di straordinaria e forse devastante novità: la religione, che da un approccio essenzialmente fenomenologico unisce a un dio, crea ora anche legami tra gli uomini, dà origine ad un sistema di valori assolutamente e fortemente condivisi, per i quali si è disposti anche a dare la vita, in un complesso, articolato e cangiante sistema socio-antropologico che è la comunità. Si crea un impianto esistenziale di valori condivisi che spesso genera felicità, ma anche contrasti e lotte cruente, sortendo effetti devastanti sulle vite di interi popoli. La riforma religiosa del faraone Akhenaton lo pone in condizione di forte contrapposizione con la classe sacerdotale che non accetta l’abolizione della numerose divinità in favore di una sola, identificata nel Sole, procurandosi risentimento e impopolarità sia da parte del popolo che della classe dirigente. La contrapposizione è tale che dopo le morte del faraone, il suo nome, come egli stesso aveva fatto nei confronti delle divinità, viene poi cancellato, anzi scalpellato, da tutti i monumenti, in una lontana ma quasi premonitrice opera iconoclasta che evoca in noi pensieri, e forse paure, ben più vicini nel tempo!

Conflittuali approcci istituzionali, però anche personali e sereni rapporti con la divinità, che vedono quel devoto ateniese di circa 25 secoli fa, con lo sguardo sereno, raffigurato nella statua de Il Moscoforo, salire verso l’Acropoli reggendo sulle spalle un vitellino, nell’intento di omaggiare un suo dio con quel sacrificio, in un gesto che ripropone e perpetua quell’atavico incedere “credo, dunque offro”.
Ed è in un crescendo anche socio-politico che si delinea una nuova, articolata, travolgente caratterizzazione del rapporto uomo-dio, nel mondo greco nasce la anfizionia, una lega di popoli sorta proprio intorno ad un santuario, definita dal Musti “lega sacrale fra popoli abitanti in uno spazio geografico coerente”: si assolutizza, si marca e si demarca, si tracciano confini anche nei meandri delle coscienze, si decide cosa debba essere “coerente”, si profilano assetti territoriali e particolari del mondo greco, partendo da concetti universali. La stessa strutturazione del dodekàtheon, ove una divinità subentra e ne scalza qualche altra, secondo un metro duodecimale, risponde ad una visione che va dal funzionale allo strutturale, nel tentativo di “inquadrare” ciò che trascende con ciò che è immane, con una “sovranità orizzontale” ed una “sovranità verticale”. Le architetture templari e le sculture realizzate tra il periodo di Cimone e quello di Pericle vedono una sintesi mirabile tra il religioso ed il politico, con la democrazia ed il panellenismo che ordinano la composizione della processione delle Panatenee, strutture intellettive ed intellettuali razionali che assurgono a connotazioni sacrali.

La duodecimalità matematica, anzi aritmetica, che permea epifanie ed impianti divini anche a noi molto vicini; la funzione del Tempio di Gerusalemme nell’antica religione ebraica, vera e propria dimora della presenza divina nel mondo sensibile, o mondo inferiore; il concetto di umma, tanto caro ai musulmani, che indica una “comunità temporale” ed ha origine comune con il termine “madre”. Tutto è continua ricerca di una manifestazione ieratica. Ma a questo punto, sopraggiunge un elemento di straripante novità, destinato ad influenzare tutta la cultura successiva, con Gesù di Nazareth si afferma un principio assolutamente nuovo nel panorama antropologico e religioso: è l’uomo stesso ieratico! E non lo è in alcune sue particolari funzioni o aggregazioni sociologiche e storiche, lo è in quanto tale, in quanto uomo, e tale novità si lega alla volontà di Dio di rendere l’uomo come Lui. Già nella sua opera creatrice Dio rende l’uomo quasi angelico “Che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli” (Sal 8,5-6). Attraverso l’opera di Cristo l’uomo diverrà eterno, con un amore rivolto a Dio stesso ed agli altri uomini “«Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l'unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Non c'è altro comandamento più importante di
questo».” (Mc 12,29-31).

Non sussiste più alcun motivo per offrire sacrifici, il “sacrificio” del cristiano si estrinseca nell’amore, verso Dio e verso il prossimo, e tale amore porterà l’uomo stesso non solo verso una condizione di vita ultraterrena beata ed eterna, ma darà a lui la possibilità di sperimentare tale beatitudine già nella sua normale condizione, nell’hic et nunc quotidiano. Non vi è più necessità di accattivarsi la benevolenza di Dio con sacrifici e libagioni, è Cristo che si è sacrificato una volta per tutte: cosa avrebbe fatto Il Moscoforo in epoca cristiana? Cosa avrebbe offerto oltre ai suoi gesti di quotidiana carità, di preghiera, di operosità? ”Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta.” (Gc 2,15-17). Il rapporto Dio-uomo, Cristo-fedele si configura, in maniera quasi travolgente, come terminus post quem, dove tutta l’arte che ne consegue, più di quanto non lo sia mai stato prima, diviene sublime maniera dell’uomo di porsi in rapporto con Dio, di presentarsi al suo cospetto. Creato a immagine e somiglianza di Dio, con la sua peculiare intelligenza, con il metro della coscienza, con la consapevolezza dei suoi gesti, con la mirabile sintesi di tutto il suo essere che è l’anima, l’uomo dice a Dio con l’arte “eccomi, sono ciò che tu hai creato, e lo sono nella maniera più alta, irraggiungibile, unica, personale che è l’opera d’arte!”. Se nelle Grotte di Altamira l’originario abitante della Spagna del Paleolitico afferma con la raffigurazione della sua mano una presa di possesso, un limite valicato, nell’arte cristiana non vi è alterità, si va oltre, vi è bisogno di Dio ma anche comunione con lui, necessità di aprire e di aprirsi.

Non sappiamo precisamente quanto e come la conversione di Oscar Wilde possa essersi definitivamente realizzata, quanto il poeta e drammaturgo irlandese possa essersi aperto e quanto possa aver aperto di Dio, ma forse il controverso e profondo sentimento religioso del poeta può essere tenuemente tratteggiato dal suo aforisma sul senso dell’esistenza e dell’arte: “La vita imita l’arte più di quanto l’arte non imiti la vita”.

* Storico delle Religioni

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