Un ospedale a cinque stelle. Ma che fine farà la sanità pubblica?

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Un ospedale a cinque stelle. Ma che fine farà la sanità pubblica?

di Adriana Saja

Si entra in una hall con una bellissima struttura in vetro che scende dal soffitto e illumina l’ambiente. Un senso di accoglienza, di pulizia perfetta, di distribuzione degli spazi funzionale. Personale gentilissimo, organizzazione efficace ed efficiente. Si ha la sensazione di essere in un albergo, non in ospedale. Per noi siciliani, abituati alle strutture semi fatiscenti dei nostri luoghi di cura, al caos che vi regna e, devo dirlo, alla ridotta se non scarsapulizia, ad un personale forse perché sovraccarico di lavoro, non so, spesso scostante e poco disponibile, entrare al Don Calabria-Sacro Cuore di Negrar (Verona) è come ritrovarsi in un luogo di benessere e di serenità. E già questo predispone il paziente ad affrontare positivamente le terapie di cura e guarigione.

Quinto ospedale del Veneto, dopo quelli di Padova, Verona, Vicenza e Treviso, è una vera eccellenza della sanità italiana. La struttura nasce nel 1922 come Ospizio e fu trasformata in Casa di Cura nel 1944, per volontà di San Giovanni Calabria dei Poveri della Divina Provvidenza.

Nel 2018 riceve dal Ministero della Salute il riconoscimento di Irccs (Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico) per le malattie infettive e tropicali. Oggi conta 2.153 dipendenti, di cui 333 medici, e 953 posti letto. Nel 2021 ha eseguito ben 22.318 interventi chirurgici con 30.661 ricoveri, 1.548.894 prestazioni ambulatoriali e 44.949 accessi al pronto soccorso. Nel 2022 aveva in corso 436 studi clinici.

La Cittadella della Carità, voluta da san Giovanni si estende su 70.000 mq e ha al suo centro un albero in ferro battuto, precisamente una quercia di quasi 8 metri di altezza con 3.500 foglie tutte battute a mano, intitolata “La quercia della Speranza”, opera dello scultore Mario Bonamini, con le radici capovolte verso il cielo e simbolo di una realtà creata dagli uomini che prende nutrimento dal cielo.

L’Ospedale Sacro Cuore Don Calabria è una struttura no profit a gestione privata, equiparata nel 1969 ai nosocomi pubblici. I profitti vengono interamente reinvestiti in personale sanitario ed in attrezzature medico-scientifiche di avanguardia. Fra cui due Pet, 5 risonanze magnetiche, quattro acceleratori lineari, il robot Leonardo Da vinci per la chirurgia. Inoltre, possiede Unity, l’unico acceleratore lineare in Italia e nel Sud Europa integrato con una risonanza magnetica ad alto campo, in grado di colpire soltanto le cellule tumorali con estrema precisione, costato ben 9 milioni di euro. Come l’Hyper Arc usato nella radioterapia oncologica.

Ancor prima delle disposizioni di legge, l’Ospedale ha attivato dal 2003 indagini di qualità, tramite un questionario di soddisfazione del paziente, al fine di monitorare il servizio di cura offerto, con ottimi risultati. Lo spirito che ha ispirato San Giovanni Calabria,  riassunto nella frase  scritta in alto all’ingresso della struttura, “Il malato, dopo Dio, è il nostro vero padrone”, è così stato mantenuto nel tempo dagli operatori che vi prestano la loro opera.

Ed in una epoca dove la tecnologia è diventata violenta, e pare sia l’uomo ad esservi asservito, ribadire la centralità del malato, un approccio personale alla cura ed una umanizzazione della sanità, ha davvero quasi del miracoloso.

Ma quale sarà il destino della sanità pubblica in Italia?

In un momento politico come l’attuale, la proposta di autonomia differenziata che viene da un governo così poco attento alle vere esigenze della popolazione, ai suoi bisogni, rappresenta per noi meridionali, davvero una grande iattura. Già costretti a questo turismo sanitario (che brutta espressione!) non oso nemmeno immaginare cosa succederà se davvero si realizzasse questa riforma strutturale dell’organizzazione regionale italiana. Perché il problema non è tanto che da noi manchi il personale preparato, tant’è che spesso e volentieri i primari dei vari reparti ospedalieri del Nord Italia sono proprio meridionali, ciò che manca del tutto sono le strutture, le tecnologie all’avanguardia, i fondi per rendere i nostri ospedali luoghi di cura adeguati alle necessità dei malati. E qualora fosse la Regione, come è previsto nella legge, a dover monitorare i livelli essenziali di cura, quali garanzie avremmo noi… cittadini del Sud, in regioni governate spesso in più o meno velata collusione con poteri mafiosi? Un’autonomia differenziata che si traduce in pratica nella diseguaglianza dei diritti e nella distruzione dell’Unità e indivisibilità della Repubblica.

Un vero golpe costituzionale, che assomiglia ad una sorta di secessione dei ricchi a danno dei poveri, delle regioni forti contro il Centro ed il Mezzogiorno.

Le diverse tipologie dei flussi generano un business da 100 miliardi l’anno, e sono almeno 11 milioni i turisti in cerca di cure di qualità. In Italia questa mobilità vale economicamente circa 4,6 miliardi di rimborsi tra le regioni. Oltre ai flussi “fisiologici”, composti cioè da chi si rivolge a centri specializzati, non presenti nelle loro regioni, e alla mobilità di confine (persone che vivono in una regione ma sono residenti in un’altra) ciò che allarma sono i flussi “patologici” cioè quelli derivati dalla scarsa accessibilità alle cure, o alla loro qualità, con l’infinita lunghezza delle liste di attesa. Ed in pratica si sposta solo chi ha le risorse economiche per farlo. Fino al dato sconfortante che in ben 12 regioni italiane i pazienti “usciti” sono più di quelli “entrati” per le cure. Sono il Piemonte, la Valle D’Aosta, il Trentino, la Liguria, le Marche, l’Abruzzo, la Campania, la Puglia, la Basilicata, la Calabria e le isole, Sicilia e Sardegna.

Ed il quadro peggiora se si considerano le proposte di modifica del Regolamento Sanitario Internazionale, che attribuirebbero all’OMS il potere assoluto in caso di emergenze sanitarie pubbliche, incluso il confinamento, la medicalizzazione forzata delle persone, i diritti di condividere la proprietà intellettuale, il know-how di produzione, la richiesta di contributi agli Stati. Senza che sia prevista alcuna possibilità di sanzioni qualora si verificassero abusi di potere. Il DG dell’OMS potrebbe così stabilire la sua totale autorità “sugli individui e sui governi nazionali nel processo decisionale relativo alla salute”, concetto di salute pubblica che si dilata a dismisura sino a considerare non solo virus e tossine, ma anche, come scrive il dr. David Bell, medico della sanità pubblica inglese e studioso del Brownstone Institute, “cambiamenti del comportamento umano, articolo o altra fonte di informazioni che potrebbero influenzare qualsiasi cosa in questo vasto campo. Se in funzione, ciò fornirebbe all’OMS una giurisdizione su qualsiasi cosa potenzialmente vagamente pertinente a qualche cambiamento nella salute o nel benessere, come percepito dal DG o dal personale delegato. Tali ampi diritti di interferire e assumere il controllo non sarebbero concessi ad un dipartimento governativo. In questo caso non vi è alcuna supervisione diretta da parte di un parlamento che rappresenta il popolo e nessuna giurisdizione legale da rispettare. Permette al DG di inserirsi e dare raccomandazioni non più non vincolanti su quasi tutto riguarda la vita sociale (la salute, nella definizione dell’OMS, è il benessere fisico, mentale e sociale).”

Non solo. Si prevede un’ulteriore modifica radicale del testo, percui l’attuazione del Regolamento basata sul “pieno rispetto della dignità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali delle persone” sarebbe sostituita da generici principi di “equità, inclusività e coerenza”.  Si tratta di una vera e propria rimozione del concetto dell’uguaglianza dei diritti, rimpiazzato da altriconcetti vaghi e diversamente interpretabili.

In un periodo storico fortemente caratterizzato dalla crisi delle democrazie liberali, i diritti umani sono concepiti come dipendenti dallo sviluppo economico e sociale, e ciò sottintende che ricchi e poveri abbiano diritti diversi, quasi esistesse una gerarchia di sviluppo che li definisce “Si tratta di un ritorno ad una visione feudale o colonialista dei diritti umani -per molti aspetti le scuse utilizzate per giustificare la schiavitù, da cui l’OMS e l’UDHR del dopoguerra avevano cercato di allontanarsi-” sostiene Bell.

I rischi sono da film dell’orrore, in un futuro distopico che non vorremmo mai vedere realizzato.

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