Giulio Mozzi racconta le "Favole del morire"
Giulio Mozzi racconta le "Favole del morire"
di Mariangela Mombelli
Cari lettori, vi voglio parlare di "Favole del morire" di Giulio Mozzi (Laurana, 2015).
“La danza della vita e la danza della morte sono sorelle gemelle. Quanta morte c’è, amici miei, nella vostra vita? Danzate, vi prego, danzate. Tutto ciò che avete, è il movimento”.
Di questo libro mi ha colpita innanzitutto il titolo. Le favole rimandano all’immaginario dell’infanzia, alle narrazioni di uomini, animali e piante e racchiudono un insegnamento di saggezza, una morale: come può essere una “favola del morire” se del morire non sappiamo nulla? Alla domanda “E’ possibile raccontare favole sulla morte?” che un intervistatore gli pone, Giulio Mozzi risponde così: “Ribalto la domanda: è possibile dire qualcosa di vero sul morire? Ne sappiamo forse qualcosa? E, in particolare: di ciò che - nel processo del morire - segue la morte, sappiamo qualcosa? Risposta: no, non sappiamo niente, non è possibile dire qualcosa di vero. Dunque raccontiamo favole. E' evidente che il titolo lavora su un contrasto. La nostra idea generica di che cosa sia una favola è: racconto tradizionale, breve, non realistico, con personaggi non solo umani, dotato di conclusione morale (e faccio notare che ciascuno di questi tratti si ritrova nei pezzi che compongono il libro). Ma ci dimentichiamo che le favole contengono anche elementi spaventosi: genitori che abbandonano i figli nel bosco, matrigne maligne a profusione, lupi cattivi, e così via. La parola "favola" deriva dal latino "fabula", che significa "racconto" in generale e deriva dal verbo "fari": che significa "dire", semplicemente, ma può estendersi fino al senso di "profetare". Quindi “fabula” è ciò che si dice, ciò che si può dire. Tento dunque una traduzione del titolo “Ciò che si può dire – inventando perché non se ne sa niente – a ciò che pone fine al nostro dire”. Raccontare favole non vuol dire raccontare balle: significa fare l’unica operazione di conoscenza che, sul morire, sia possibile: immaginarlo.” Incuriosita, ho letto il libro. Va subito precisato che il libro non è una raccolta di favole: si tratta piuttosto di sette “pezzi “(è l’autore stesso a definirli così), sette momenti, scritti da Giulio Mozzi nell’arco di una decina di anni . Pezzi, perché non sono solo racconti, non sono solo poesie, non sono solo canti, non sono solo fiabe, non è solo teatro. Pezzi che ci invitano a riflettere non sulla morte, ma sul morire, non sulla staticità di un evento, ma su un divenire, sul nostro tendere verso quel momento fin dal primo istante della nostra vita. Il morire e non la morte è il grande tema ossessivamente presente nella vita dell’uomo: a turbarci tanto è proprio la soglia da varcare, più di quello che troveremo di là, se lo troveremo. L’argomento non è certo uno di quelli che trasforma il libro in un best seller, ma la complessità dell’opera sta proprio nella capacità di Mozzi di spaziare, con estrema disinvoltura, da un genere letterario all’altro, dalla poesia alla prosa al teatro, mantenendo sempre un livello stilistico molto elevato e mai banale. Di favola in favola, ci si trova di fronte alle mutevoli rappresentazioni del morire, che vanno dal racconto quasi tradizionale di “Novella con fantasma”, pura sospensione tra la vita e la morte, al pezzo memorialistico, in parte in prosa e in parte in versi, de “La stanza degli animali”, dalle ballate di “Operetta di giugno”, dialogo notturno tra l’autore vivo e i personaggi raffigurati del Ciclo dei Mesi di Torre Aquila nel Castello del Buonconsiglio di Trento, morti, ma condannati a vita perenne dalla mano del pittore, al testo teatrale “Emilio delle tigri se ne è andato”, sulla sospensione della speranza nel suicidio di Emilio Salgari, fino all’apice di “Favola del morire”, incentrato proprio sull’immaginazione di quel momento inevitabile per ogni uomo: “Del morire non sappiamo niente. Però ci immaginiamo. Vediamo gli altri morire. Moriremo, questo è certo. Da sempre ci immaginiamo. C’è chi dice che immaginare sia stupido. C’è chi dice: è la fine, stop. Io che cosa dico? Morirò, mi trasformerò”. Il concetto fondamentale che Mozzi esprime è che la vita e la morte sono contenute inscindibilmente una nell’altra, senza soluzione di continuità: “Se penso al mio vivere come a una cosa ferma, sono morto. Se penso al mio morire come a un movimento, sono vivo. Mi perderò, sarò salvo. Seppellirò i miei morti e sarò sepolto dai miei vivi. Se il seme non muore, non può far vivere. …". Da quest’idea del vivere e del morire come un continuo movimento interdipendente, traspare una laica religiosità splendidamente espressa dalle parole che chiudono “Favola del morire”: “Questa è la speranza: un’immaginazione”. Queste centosessanta pagine di Giulio Mozzi non son da leggere tutte d’un fiato e anche a volerlo non si riesce a farlo per come è costruita stilisticamente l’opera: ma se lette, e pensate, e rilette hanno il pregio di rasserenare perché riescono a farci ritrovare dentro una speranza, che sia pure immaginazione….
© RIPRODUZIONE RISERVATA copyright www.ilgiornaledelricordo.it