Appuntamento mancato: Mussolini a Brunate20/5/2019

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Appuntamento mancato: Mussolini a Brunate20/5/2019

di Giovanni Curatola

“Si. Ci sono altri particolari che riguardano la morte di Mussolini. Non è andata come la raccontano. Ma non posso dirti niente di più. Non insistere. Nemmeno se mi offri dei milioni. La pelle è una sola…”. Fu così che nel febbraio 1956 il giornalista Giorgio Pisanò seppe dall’ex partigiano Guglielmo Cantoni, uno dei due guardiani che ebbero in consegna i prigionieri Benito Mussolini e Claretta Petacci nella casa De Maria a Bonzanigo, che la versione ufficiale fornita fino ad allora (fucilazione davanti a villa Belmonte, dopo lettura di regolare sentenza e “in nome del popolo italiano”) non era affatto veritiera, ma era stata costruita a tavolino a posteriori per nascondere una verità evidentemente troppo scomoda, e che chi violava il silenzio imposto dai vertici del Partito Comunista, si giocava la vita. Subito dopo l’uccisione di Mussolini, la fucilazione dei gerarchi a Dongo e il trafugamento dei beni privati che questi stavano portandosi in Valtellina (il famoso “oro di Dongo”), un’impressionante catena di omicidi aveva infatti insanguinato l’intera zona: 450, di cui 70 nella sola città di Como. Una mattanza orchestrata ed eseguita dai partigiani comunisti, quasi sempre a spese di loro stessi compagni che erano stati, protagonisti, spettatori o comunque legati in qualche modo ai fatti di Dongo (su tutti “Lino”, l’altro guardiano di Mussolini e della Petacci, e il “capitano Neri”, il partigiano che decise di trasferire la coppia a Bonzanigo, dopo che il piano originario di portarli in una baita sopra Brunate era fallito per un disguido dell'ultimo minuto fra partigiani stessi che non fece trovare a Moltrasio la famosa barca con cui il Duce doveva essere trasportato sulla riva opposta del lago di Como e da lì in auto appunto in una baita tra Brunate e S.Maurizio). Chi sapeva e non era stato ucciso, era stato ridotto al silenzio dalla paura. Complice questa diffusa omertà, al cui confronto impallidirebbe persino quella mafiosa, la versione ufficiale consegnata dal P.C.I. alla Storia ha avuto vita facile nel radicarsi nell’opinione pubblica del dopoguerra attraverso testi scolastici, libri, articoli, film, trasmissioni televisive, praticamente senza incontrare ostacoli o voci contraddittorie. E quest’omertà ha lasciato segni così profondi che ancora negli anni ’90, nonostante quasi tutti quelli che allora avevano imposto il silenzio fossero già morti di morte naturale, qualche testimone divenuto nel frattempo ultrasettantenne avrà ancora paura di raccontare quei fatti. Pochissimi giornalisti e storici, che non fossero allineati ai voleri del P.C.I., misero in cinquant’anni il naso nei fatti di Dongo, dando per buona la versione ufficiale. E non affatto un caso che bastasse pochissimo, a chi invece indagò coraggiosamente in proprio per vederci chiaro, a smontare tale versione. Anzi, tali, perché il P.C.I. ne diede in diversi momenti 3, e tutte in vari punti differenti tra loro, se non addirittura contrastanti. Tante, troppe cose non quadravano. La successione degli eventi, i particolari dei luoghi, degli orari, la presenza o meno dei protagonisti, le frasi messe in bocca agli uni e agli altri, le modalità dell’esecuzione, le condizioni atmosferiche, le distanze, ecc. Già nel 1956 “L’Europeo” aveva iniziato la pubblicazione di una serie di articoli dello storico Franco Bandini (poi racchiuse nel suo libro “Le ultime 95 ore di Mussolini”), in cui si iniziò a sospettare che quella davanti villa Belmonte fosse stata in realtà una finta fucilazione, eseguita su due cadaveri per dare una parvenza di legalità a un omicidio avvenuto alcune ore prima, in altro luogo, con altre modalità e per motivi ben diversi da quelli raccontati. L’ipotesi di un Mussolini ammazzato due volte, la prima in mattinata e la seconda con la sceneggiata pomeridiana davanti villa Belmonte, fu ai tempi ovviamente investita da critiche e fatta passare per assurda. Eppure era esatta. Lo si può confermare oggi, alla luce dei riscontri logistici, balistici, digitali, medici e scientifici di cui possiamo disporre. E anche alla luce di qualche eccellente testimonianza saltata fuori dopo 50 anni e che (a differenza di altre di mitomani, faziosi o gente ormai in età poco lucida, che ha solo contribuito negli anni a sviare, depistare e rendere più complicata la soluzione del mistero) ha superato ogni riscontro scientifico andando a confermare o correggere le parti qua e là più attendibili di alcune precedenti versioni. A rompere per primo il silenzio fu nel 1993 Urbano Lazzaro, l’ex partigiano “Bill” che allora catturò Mussolini su un camion tedesco e che pubblicò il libro “Dongo, mezzo secolo di menzogne”. Protagonista dei fatti e ben informato dai colleghi, pur non essendo fisicamente presente all’esecuzione egli confermò la tesi di Bandini. Era inutile che storici, giornalisti e ricercatori si scervellassero sull’attendibilità o meno di ogni ipotesi, ogni fantasticheria e di fanfaronata detta e scritta sulle ultime ore di Mussolini: su cosa avrebbe fatto o detto quel 28 aprile dal risveglio in casa De Maria alla fucilazione pomeridiana e sulle modalità con cui questa si sarebbe svolta. Quelle ore in realtà non ci sono mai state.     

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