Juventus, maggio 1987: la fine dell'era Platini 14/9/2019
Juventus, maggio 1987: la fine dell'era Platini 14/9/2019
di Giovanni Curatola
Mio figlio mi rassicura sempre che il Palermo è la sua squadra del cuore, e che la Juve dei suoi idoli Buffon, Dybala e Ronaldo è al massimo la sua seconda squadra. Ho ragione di credere che non lo ripete solo per farmi piacere, ma perché così in realtà è. Nonostante lo tsunami che quest’estate si è abbattuto sulla nostra città portando i colori rosanero da un passo dalla Serie A all’inferno della Serie D. Ad ogni buon conto lo scorso mese, approfittando della tappa torinese del nostro viaggio estivo, porto mio figlio al museo della Juventus, che ha sede dentro lo stadio. Cimeli, maglie, trofei, monitor coi video delle gesta bianconere di ogni epoca… A un certo punto, lo prendo sottobraccio e lo porto davanti alla sagoma di Michel Platini. Lì, lapidario, gli faccio: “Ricorda: come lui, nessuno!”, aggiungendo che il suo stile non teme confronto né col suo pupillo attuale Ronaldo né con altri fuoriclasse delle Juventus passate. Stile e signorilità non solo calcistiche, ma anche verbali. Ricordo che a differenza di altri calciatori, anche fortissimi, di quegli anni ’80, che rilasciavano solo frasi ovvie, banali e a volte anche sgrammaticate, Michel non annoiava mai. Parlantina aristocratica, ironica, acuta, sempre fuori dalla massa… Ascoltarlo radio o vederlo intervistato in tv era uno spasso. Anche certi suoi atteggiamenti ora timidi ora snob risultavano tutto sommato sempre gradevoli e simpatici. Cosa sia stato Platini in campo, poi, non serve certo che lo ricordi io in questa sede. Fortemente voluto dall'avvocato Agnelli (cui leggenda vuole che i due si sentissero ogni mattina all'alba), Platini fece la storia di quel quinquennio bianconero. Opto quindi per proporre – o riproporre – l’ultima pagina della sua avventura a Torino. Un finale che, per quanto dato nei 5 anni precedenti, meritava da parte della Juve ben altra riconoscenza.
Dunque, stagione 1986-87. Michel con la Juventus ha già vinto in 5 anni tutto ciò che c’era da vincere: 2 scudetti, Coppa Italia, Coppa Campioni, Coppa delle Coppe, Coppa Intercontinentale, Supercoppa Europea, pure un Mundialito per clubs. A titolo personale, 3 palloni d’oro (miglior calciatore europeo dell’anno) e altrettanti titoli di capocannoniere del campionato italiano. Praticamente da solo, ha poi portato poi la Francia a vincere l’Europeo del 1984, a cavallo di 2 Mondiali (1982 e 1986) in cui il sogno della finale è svanito per un soffio, entrambe le volte contro la Germania Ovest. Resta quella Coppa del Mondo l’unico trofeo ancora da conquistare, ma già alla fine del 1986, a 31 anni, il fuoriclasse francese capisce di essere fuori tempo per riprovarci ancora nel 1990. Al fisiologico calo di stimoli, subentra in quell’inverno 1986/87 la consapevolezza che la sua parabola fisica ha ormai iniziato la curva discendente, sciaguratamente accentuata da quella pubalgia che in carriera non gli ha mai praticamente dato tregua. In più, quella Juve la sente sempre meno… sua. I compagni dei primi successi in bianconero (Zoff, Gentile, Bettega, Rossi, Tardelli, Boniek, mister Trapattoni) a poco a poco sono andati via (chi per altri lidi, chi per ragioni anagrafiche) e i nuovi sostituti (Mauro, Manfredonia, Serena, Laudrup, soprattutto il nuovo tecnico Marchesi) non si stanno certo rivelando alla pari dei loro predecessori. Della Juve che fu, restano solo lui e Scirea: un po' poco per ripetere nuovi miracoli. Screzi in campo con Marchesi e punzecchiature fuori campo di qualche dirigente gli fanno meditare il ritiro. E, per tempismo, è la scelta migliore. Trascinarsi per un altro paio d’anni con prestazioni sempre dignitose ma non più all’altezza del campione che fu, servirebbe a poco. Per risparmiare a sé stesso e alla gente un inevitabile declino, decide dunque di anticipare la fine della carriera e salutare il mondo del calcio ancora “in sella” e col ricordo delle sue gesta ancora vivo. Intelligenza o furbizia? Ad ogni modo, una lungimiranza degna di lui, che altri campioni prima e dopo di lui non hanno avuto.
Nella sua biografia “Le roi”, così Platini racconta il suo triste congedo dalla Juve: “Sono morto a 32 anni, il 17 maggio 1987 (giorno di Juve-Brescia, ultima di Serie A 1986/87). Maradona e il Napoli sono ormai campioni d’Italia, ma ci sono almeno 30.000 tifosi allo stadio di Torino, venuti ad assistere alla mia uscita di scena. Il cielo è basso. La pioggia non smette di cadere. Sulle gradinate gli striscioni proclamano l’affetto dei tifosi… Abbandono il mio teatro attraverso la porticina degli spogliatoi, la stessa delle uscite verso i successi… Sono solo, di fronte al mio armadietto metallico freddo e anonimo. Gli amici, i compagni di squadra, sono fuggiti dalla porta di servizio. Non ci saranno grandi abbracci collettivi. Niente gioia, niente tristezza, niente emozioni condivise. E scopro, davanti ai miei piedi, un cesto di fiori con scritto: “Resterai per sempre nel nostro cuore”. Fuori mi aspettano, inzuppati di pioggia, battendo i piedi per il freddo, e forse per l’emozione, una decina di tifosi. La mia Fiat Uno mi aspetta nel parcheggio dell’antistadio. Accendo il motore, parto. Imbocco via Filadelfia, la strada della “prima volta”, 5 anni or sono. Con me allora c’erano Boniek e le nostre famiglie. Cinque anni dopo sono solo. Il tergicristallo in funzione, tanta acqua dal cielo di Torino… Il Brescia è retrocesso. Lo abbiamo battuto 3-2 e un’ora più tardi sto viaggiando verso la collina per raggiungere i miei. Una, due sigarette. Uno, due semafori rossi. E alle mie spalle, lo stadio comunale… Qualcuno dirà: “Platini se n’è andato troppo presto, troppo in fretta”. Si, è vero. Ma anche troppo solo. Ho servito la Juventus per 5 anni, ho dato alla società i trofei più belli, e proprio la sera della nostra separazione… niente. O quasi. Come se fra di noi non ci fosse mai stato nulla. Mi aspettavo una festa, non ci sono stati che battimani. “E’ il migliore a lasciarci” ha detto sbrigativamente Agnelli, come si dice alla sepoltura. Dopo i trionfi e gli applausi c’è la solitudine. Ecco ciò che mi ripeto nella sera solitaria del mio addio, mentre sto filando sotto la pioggia verso la mia casa di collina. La notte è di una malinconia infinita. Il dramma di quella notte belga (la finale di Coppa Campioni contro il Liverpool a Bruxelles), i fantasmi dei morti non smettono di ossessionarmi. Da due anni c’è qualcosa di diverso dentro di me… Provo nostalgia. Quella della Juventus di un tempo, in cui giocavo accanto a fianco dei campioni del Mondo di Spagna. Se ne sono andati via, lasciandomi solo. Unico di una grande squadra…”
Quanto al sottoscritto, ricordo lo sconforto e il timore, chiusosi quel quinquennio irripetibile di Platini in bianconero iniziato dopo i Mondiali del 1982 in Spagna (mio primo approccio col mondo del pallone). Timore di aver esaurito le emozioni più belle che il pallone potesse regalarmi. Per fortuna mi sbagliavo. Non quanto alla Juve, che a parte il bagliore 1989-90 con Totò Schillaci non riuscirà mai più a incantarmi come negli anni di roi Michel, scivolando nell'indifferenza se non addirittura nell'antipatia durante l'era Moggi.
Ma quanto al Palermo, che appena 3 mesi dopo l’addio al calcio di Platini rinascerà dalla C2 per una lunga avventura, che avremmo vissuto assieme sin dall’inizio. Ancora emozioni. Nuove. Diverse. Ancora più grandi, più forti, più durature. Tinte stavolta non di bianconero ma di rosanero. Emozioni credute perse e ritrovate dopo soli 3 mesi di interregno, che danno piena ragione alla visione della vita di Antonello Venditti: “E quando pensi che sia finita, è proprio allora che comincia la salita”
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