Tripoli: colonia perduta ma caserma ritrovata 8/11/2019

Memoria per Tripoli: colonia perduta ma caserma ritrovata

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Tripoli: colonia perduta ma caserma ritrovata 8/11/2019

Testo e foto di Giovanni Curatola 

Richiamato alle armi già dal 30 aprile 1939 (quando Italia e Germania non hanno ancora firmato il loro “Patto d’acciaio” ma i governi di mezza Europa stanno già mobilitando i propri eserciti), il 37enne maresciallo capo radio telegrafista di 2° classe della Regia Marina Ippolito Pace apprende in una caserma di Messina lo scoppio delle ostilità, il 1° settembre. L’Italia ne rimane al momento fuori, ma la mobilitazione di tutte le nostre forze armate di terra, mare ed aria diventa generale, così 17 giorni dopo il buon maresciallo è destinato in Libia, al Centro Radio Ricevente della Regia Marina di Tripoli. La raggiunge via mare, da Siracusa, alle 23.00 di lunedì 18 settembre. Questa casermetta bianca e bassa (un solo piano), con archi, colonne e rigoglioso giardino davanti (tipica architettura coloniale anni ‘30) è sita alla periferia est della città, oltre Sciara Sciatt, a 400 metri dal mare e alle spalle del galoppatoio che prende il nome dalla zona (Abu Sittah, Busetta). Diventerà per 3 anni e mezzo la sua casa, esattamente per 1.135 giorni: dalla fine di questo 1939 al 21 gennaio 1943 (eccezion fatta per due licenze a casa a gennaio e maggio del 1940, prima della nostra entrata nel conflitto, e 18 giorni di missione di guerra, a novembre dello stesso anno, con tanto di battaglia e siluramento nel Canale di Sicilia). A Tripoli vive un po' di tutto: l’entrata in guerra dell’Italia, la fine di Italo Balbo, l’arrivo dell’Afrika Korps dell’alleato germanico, i bombardamenti inglesi, le alterne vicende dell’Asse (Tobruk, Derna, Sidi el Barrani, Giarabub, la “porcheria” dei rifornimenti sabotati (“quando ai nostri carri armati nel deserto mancava l’ultima spallata al nemico per coronare tanti sacrifici e chiudere la partita, si aprivano i fusti di benzina ma ci si trovava dentro acqua…”), l’arrivo di Mussolini per quell’ultimo balzo che non ci sarà verso Alessandria d’Egitto e il Nilo, poi Marsa Matruh, El Alamein, quindi la lenta ma inesorabile ritirata fino all’abbandono di Tripoli e alla sua caduta in mano inglese. A parte pochi incidenti e qualche raro caso d’indisciplina, nella vita quotidiana di questa caserma, in questi anni di guerra, l’ordine è tutto sommato sempre ben rispettato. A sbattere i più lavativi al fronte, in prima linea, quando dai “piani alti” arriva richiesta di uomini, ci pensa il maresciallo Pace, che di fatto è il terzo più alto in grado di questa caserma. E che, da palermitano, chiede più sacrifici a qualche suo concittadino rispetto agli altri per non creare invidie o venir tacciato di favoritismi. Eppure in quegli anni, tra le dune e il mare africano, il Centro Radio della Busetta diventa una grande famiglia. Anche i rapporti con gli indigeni sono ottimi, sicché nei (rari) momenti di libera uscita marinai e bimbi locali andranno a mare assieme. Protetta com'è dai sacchetti di sabbia anti-schegge, a differenza del porto e di altre zone della città la caserma verrà tuttavia accidentalmente risparmiata dai bombardamenti aerei inglesi.

A luglio del 1942, l’ultima grande illusione per le forze dell’Asse di raggiungere Alessandria e il canale di Suez e chiudere la partita nello scacchiere africano (il possesso del canale avrebbe da un lato impedito i continui rifornimenti di mezzi e uomini provenienti dall’America e dalle sterminate colonie asiatiche inglesi, dall’altro avrebbe fatto scendere in guerra a fianco dell’Asse anche il Medio Oriente arabo con le sue inesauribili fonti petrolifere). El Alamein, a soli 111 km da Alessandria, si dimostra invece un baluardo insuperabile, e da lì a fine ottobre (dopo la cruenta battaglia che in condizioni di disperata inferiorità numerica vede episodi di grande quanto inutile eroismo della “Folgore” e dei “Giovani Fascisti di Bir el Gobi), inizia per l’Afrika Korps e le truppe italiane una lunga e inesorabile ritirata. In 2 mesi tutto quanto conquistato andrà perduto, e gli Alleati inseguitori si troveranno a metà gennaio alle porte di Tripoli. Nel testo militare di Maioli-Caroli “Da El Alamein a Tunisi”, (Edizioni Fratelli Melita) si legge: “Fronte di Buerat, 12 gennaio 1943. Montgomery ha fretta. Vuole arrivare il più presto possibile a Tripoli (a 345 km da lì). Schieramento delle forze dell’Asse: 38 carri armati, 10.000 soldati germanici, 30.000 italiani, questi ultimi come al solito sprovvisti di mezzi di trasporto… All’alba del 15 gennaio si scatena l’atteso attacco. Dopo un massiccio bombardamento dell’aviazione e dell’artiglieria, la 51° (divisione inglese) accompagnata dalla 2° neozelandese prende verso il deserto, nel tentativo di cercare il fianco di Rommel per poi vibrargli un colpo alla schiena. Di riserva, una brigata corazzata: 450 carri da una parte, 30 dall’altra, l’esito non dovrebbe essere incerto. Ma ancora una volta Montgomery è gabbato: il famoso “turacciolo” si chiuderà su un collo di bottiglia vuota”. Per evitare l’accerchiamento, Rommel ha infatti già da una settimana fatto ripiegare a scaglioni tutti i reparti mobili dell’Asse di circa 200 km, che il 18 mattina si posizionano sulla nuova linea di difesa Homs-Tarhuna. Il fronte, così “accorciato”, dista ora solo 115 km da Tripoli. Tutto il 18 gennaio e la mattina del 19 i difensori italo-tedeschi hanno la meglio nel rintuzzare ogni assalto nemico, ma quando nel pomeriggio il pericolo di un nuovo aggiramento da parte delle preponderanti forze nemiche si fa sempre più concreto, Rommel ordina l’immediato ripiegamento generale (non a scaglioni stavolta, ma rapido e simultaneo) di quel che resta della sua armata. Vinto si, imbottigliato mai. E il fronte si sposta ancora all’indietro di un centinaio di km. Siamo ormai quasi al margine del campo trincerato di Tripoli. Il bollettino di guerra n.971 minimizza per non creare allarmismo, spostando l’attenzione su altre zone d’operazioni e parlando di “previsti movimenti” regolarmente compiuti in Africa dalle forze dell’Asse. Quali siano questi “previsti movimenti”, non è dato sapere. Ma l’esperienza insegna – e tutti ormai sanno - che quando la radio parla di “previsti movimenti”, questi non sono certo in avanti.

L’esatto, e drammatico, polso della situazione l’hanno però gli Stati Maggiori, che iniziano a diramare alle truppe di stanza a Tripoli l’ordine evacuazione della città. Il Centro Radio Ricevente del maresciallo Pace lo riceve la tarda serata del 20. Nella notte, con la morte nel cuore, si rendono inservibili gli impianti radio e si seppellisce qualche cassa sotto le alte palme del galoppatoio dietro la caserma. Quindi, nelle prime ore della mattina arrivano i camion con cui si forma frettolosamente il convoglio diretto in Tunisia. Come da prassi in questi casi, si distribuiscono viveri e munizioni e si abbandona ciò che non si può portare con sé. Trattandosi né di una resa né dello scioglimento di un reparto, ma di un ripiegamento in altra località, non si provvede né al rito della distribuzione del denaro della cassa (in genere qualche mensilità anticipata) né al taglio della bandiera ammainata dal pennone della caserma. Entrambe (cassa e bandiera) sono sistemate invece su un camion al centro della colonna che, alle ore 10.15 di giovedì 21 gennaio 1943, lascia per sempre Tripoli. Il ripiegamento su Tunisi, con soste Gabes e Sfax, avviene in un generale silenzio, spezzato solo dall’aviazione britannica che per 3 volte sgancia il suo carico di bombe per poi scendere a bassa quota a mitragliare la colonna dall’alto. Così il maresciallo Pace e il suo manipolo di marinai schizzano immediatamente fuori dai camion (tenuti con le portiere aperte proprio per non perder tempo) per gettarsi a terra ai bordi della strada e sperare di non venire colpiti. Il suo orologio, guastatosi per la sabbia entrata all’interno proprio in occasione dell’ultima delle 3 incursioni nemiche subite in quel tragitto, segna ancor oggi quell’ora pomeridiana del 21 gennaio 1943. Ma non è tanto il ripiegamento a Tunisi che qui più interessa evidenziare (da lì, per la cronaca, il 1° febbraio il maresciallo Pace salperà poi per Trapani), quanto quell’ondata di forte commozione e malinconia che ha inevitabilmente investito a qualunque livello (dal contadino al soldato) chiunque ha dovuto abbandonare frettolosamente la capitale della Libia in quel fine gennaio del ’43. E che qui rileviamo ricorrendo ancora alle pagine del già citato testo di Maioli-Caroli: “L’abbandono di Tripoli significa l’abbandono della colonia... C’è, è chiaro, il problema sentimentale. Non si lascia, senza sentirsi stringere il cuore, una colonia sulla quale gli uomini hanno lasciato tutto il loro sudore e tutta la loro anima. Il dramma è dei coloni. Essere costretti a lasciare tutti quei villaggi, quelle casette ben curate, è uno spettacolo penoso. Il lavoro di anni, cancellato tutto a un tratto. Quanto sudore! Quante speranze su quei rettangoli di terra innaffiata e concimata dal sudore dei contadini siciliani e veneti! Visti dall’aereo, i villaggi sono graziosi. Ma visti da vicino, sono una pena. Buona parte dell’intonaco degli edifici è caduto, i negozi sono vuoti, l’osteria non è più che un vivaio di mosche. Prima di abbandonare la città si sono dovuti congedare migliaia di lavoratori, nazionali e libici. A questi ultimi è stato chiesto se volessero seguire il destino dell’armata o tornare alle loro case: solo una decina in tutto decide di restare. Ma se doveva essere consegnata agli inglesi, tanto valeva che Tripoli fosse violentata prima. Il saccheggio è stato violentissimo. Cominciato il 19 mattina, si conclude il 22 sera. I magazzini sono presi d’assalto. Militari, civili, arabi: tutti s’affannano ad arraffare quel che possono. Anche il deposito medicinali è preso d’assalto. Bende, pillole, ferri chirurgici: tutto è rovesciato, strappato, portato via. Al deposito viveri, le scene più violente. Presi di mira soprattutto lo zucchero ed il caffè. Qualcuno, in disparte, piange. I magazzini più ricercati sono quelli dell’olio. Lì per lì non si ha il tempo di pensarci: ma con tutti quei magazzini ricolmi, perché non arrivavano viveri al fronte? Sera del 23 gennaio: le ultime colonne lasciano la città verso le 19.00. Mentre per i soldati dell’VIII° armata britannica Tripoli era la fine della marcia nel deserto, della sete, del sole negli occhi, della sabbia in bocca. Erano i viali, i giardini, gli alberi, un po' di frescura, la birra, e per Montgomery la gloria, per chi va via il commiato con la colonia è triste. E avviene là dove la “Balbia”, l’asfaltata imperiale, finisce, e comincia il deserto tunisino…”.

Smilitarizzato e ripresa nel dopoguerra la sua attività di navigante, il maresciallo Pace non tornerà più a Tripoli. Né vorrà tornarci, da turista, dopo il pensionamento raggiunto nel 1959. Troppa malinconia, troppe ferite ancora aperte, troppi ricordi che avrebbero fatalmente e bruscamente cozzato con la Tripoli non più italiana: la splendida cattedrale trasformata in moschea, la Fiera Campionaria e altri imponenti edifici degli anni ’30 “arabizzati” e violentati nella loro armonica e ordinata architettura originaria, i viali, le piazze e il lungomare modificati e sventrati delle tante aiuole e dei tanti palmeti di un tempo… E poi i fantasmi di tanta gente lì conosciuta, compresi i soldati e marinai lì rimasti per sempre, orizzontali…

Infine, la casermetta che fungeva da Centro Radio durante la guerra. Per risalirne all’esatta ubicazione, peraltro con ricerche a distanza, chi scrive ha dovuto faticare non poco. Le uniche indicazioni lasciate dal maresciallo Pace, venuto frattanto a mancare, erano il quartiere (Busetta) e il galoppatoio (oggi un signor ippodromo) alle spalle. Agli scarsi esiti di ricerche in biblioteche ed archivi militari, si è andato via via sommando lo sconforto dovuto a chi nel primo dopoguerra a Tripoli c’era rimasto e mi andava testimoniando di come quell’edificio quasi sicuramente non ci fosse più, in quanto Gheddafi aveva fatto mutare volto a tante zone della città, Busetta inclusa, per eliminare il più possibile di ciò che ricordasse il colonialismo italiano. Poi una sera di 2 anni fa, a speranze ormai quasi spente, un sobbalzo. Quasi per caso, setacciando la zona con “Google Hearth” come si farebbe in fondo all’oceano per il relitto di una nave, mi imbatto nella foto di un moderno ospedale per malattie polmonari con, sullo sfondo, un edificio con delle arcate familiari. Un riscontro con altre foto, quindi i riscontri coi particolari delle finestre e del frontone. Ed ecco che i sobbalzi diventano 2, poi 3. Le dimensioni e le proporzioni, pur approssimative, che coincidono perfettamente danno la definitiva conferma: eccolo lì il vecchio Centro Radio Ricevente della Regia Marina! Ancora in piedi, anche se leggermente modificato perché adattato a padiglione secondario di quest’ospedale e perpendicolare al corpo principale. Il riscontro delle foto lasciatemi dal maresciallo Pace con quelle attuali reperite in Internet ha avuto in chi scrive probabilmente lo stesso stato d’animo dei ricercatori che hanno accostato vecchie foto del Titanic in navigazione con quelle del suo relitto dopo averlo ritrovato, 80 anni dopo, in fondo al mare. Perché così come il freddo e profondo oceano Atlantico, anche “Tripoli bel suol d’amore” aveva nel suo piccolo restituito dopo decenni qualcosa che si considerava ormai perduto.

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