Il magnifico Houllebecq di “La possibilità di un’isola”23/11/2019

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Il magnifico Houllebecq di “La possibilità di un’isola”23/11/2019

di Elisabetta Cassone

“Il mare è sparito, come la memoria delle onde. Disponiamo di documenti sonori e visivi; nessuno ci consente di provare veramente l’attrazione ostinata che pervadeva l’uomo, come testimoniano tante poesie, davanti allo spettacolo in apparenza ripetitivo dell’oceano che si frangeva sulla sabbia. Non siamo in grado nemmeno di capire l’eccitazione della caccia e dell’inseguimento delle prede; né l’emozione religiosa né quella specie di frenesia immobile, senza oggetto, che l’uomo designava sotto il nome di estasi mistica.” (cit.)

***

Ho distillato pazientemente le sensazioni post-lettura. Realizzo che uno dei desideri più impellenti da un po’ di tempo a questa parte, assieme a quello utopico dei capelli che si messinpiegano autonomamente, è stato proprio quello di volermi imbattere in un romanzo come questo Houellebecq.

Quest’opera è pervasa da una visione cinica, oltremodo cinica, della società contemporanea e narra di scenari fantascientifici post-umani con una trama assolutamente originale e sconquassante.

Gli uomini non ci sono più. Al loro posto, i neoumani, esseri evoluti in quanto preservati dal pericolo di provare sentimenti, quindi completamente immuni alle passioni e a qualsiasi tipo di pulsione. I neoumani sono esseri autotrofi, a differenza degli uomini si alimentano come le piante, avviando processi di fotosintesi clorofilliana. Non devono cibarsi di carne o altri alimenti, solo di zollette di sali minerali. Non conoscono il dolore di un amore, di un tradimento, non sono più in grado di apprezzare la piacevolezza di una poesia, il calore di un abbraccio o di un amplesso. Non ridono, non piangono, non si struggono. Guidati dalla solerte autorità della Sorella Suprema, un’autorità astratta che detta leggi per un’esistenza armonica, i neoumani sono dislocati in varie parti della Terra, soli, ognuno nella sua sede, con il suo terminale, con un cane a fare loro da compagnia e con il compito di commentare autobiografie dei vecchi umani.

Il romanzo si articola in una serie di racconti in prima persona che assemblati coinvolgono il lettore in una sorta di rimpiattino tra una descrizione succinta e amorfa di un neoumano alla 25esima generazione, Daniel25, e quella del suo predecessore umano, Daniel, la cui autobiografia mantiene il tessuto piacevole della confessione emotiva dei vari eventi che gradualmente hanno portato alla scomparsa degli uomini e delle passioni le quali essi si portavano appresso nella loro tormentata costituzione.

Daniel era un virtuoso della recitazione, un dissacratore e anche preda di due amori importanti. Al vertice della sua carriera di attore e di sceneggiatore, viene per caso a conoscenza di una setta che professa la dottrina dell’elohimitismo, ossia il culto degli Elohimiti, una sorta di alieni che, una volta che fossero stati onorati degnamente dagli uomini con la costruzione di lussuose ambasciate ed edifici portentosi , avrebbero riservato a questi mortali adepti l’iniziazione all’immortalità, da attuarsi concretamente con la clonazione e più esattamente con la donazione di una porzione di DNA da preservarsi per la nascita del clone successivo. Come ogni setta oscura, anche questa è strutturata attraverso rituali efferati e profondamente amorali.

Una volta entrati nel nucleo del plot, la narrazione è un profluvio di vicende che sembrano voler ammonire l’umanità tesa a cannibalizzarsi, a distruggere se stessa, l’umanità che per quanto profondamente debole è anche di una crudeltà virale, è materialista e ipnotizzata dal raggiungimento della ricchezza e del potere.

Ma i neoumani non sono così forti e freddi e imperturbabili come dovrebbero essere. Si inteneriscono leggendo le belle pagine che i mortali e - nello specifico quelle dell’allora attore Daniel - scrivono sulle emozioni, sugli incontri con l’altro sesso, sulla tempesta di sospiri che il da loro ignoto concetto di amore scatena. Nondimeno, questi neoumani rammendano sempre la loro corazza di indifferenza ritenendo che:

“probabilmente l’amore, come la pietà secondo Nietzsche, non era mai stato altro che una finzione sentimentale inventata dai deboli per colpevolizzare i forti, per introdurre dei limiti alla loro libertà e alla loro ferocia naturali”. (cit.)

Questo libro è magnifico, inietta riflessioni disincantate ma nel contempo fa emozionare per quella possibilità di uno scarto, di una redenzione, per la possibilità di un’isola, di un moto di umanità. Il titolo così bellamente sfoggiato sulla copertina verrà felicemente ritrovato dal lettore nel libro una sola volta, nel posto giusto e, nei lettori più sensibili, o forse è meglio dire in quelli più ingenui e facilmente sommovibili, farà commuovere, come è successo a me e come testimonia il mio appunto “lacrime” a margine della pagina.

Non posso aggiungere altro che Houllebecq è sicuramente un rappresentante insigne della letteratura contemporanea e che ha con questo libro dilatato il contorno ristretto delle mie visioni, la mia modesta Weltanschauung e ciò prima ancora di leggere che ha avuto una vita inquieta, che ha vissuto un periodo di disoccupazione, di depressione, di solitudine, senza per questo non eccellere nell’esternare il suo mondo interiore. Come tutti i letterati, come tutte le anime in pena.

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