Bambini cattivi10/12/2019

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Bambini cattivi10/12/2019

di Avv. R. Patrizia Tripodi

I bambini possono essere il simbolo dell’innocenza e della purezza tanto quanto possono rappresentare la cattiveria per antonomasia poiché privi di qualunque filtro come solo un bambino o un vecchiopossono essere. L’idea che dei bambini si ha tende a far sorprendere ancora di più quando si sente parlare di atti di violenza e crudeltà da loro commessi. Le cronache ci raccontano sempre più frequentemente di bullismo tra i piccoli, di aggressività, di comportamenti violenti da parte dei minori nei confronti di altri minori e non. Le case famiglia pullulano di minori con storie di delinquenza. La mafia fa i suoi proseliti tra gli adolescenti. Mi raccontavano in Calabria, quando vi lavoravo, che arrivati a 14 anni, era normale essere avvicinati dal mafioso di turno che tentava di assoldare i ragazzini per utilizzarli come manovolanza. Più o meno quella era l’età in cui ci si trovava a decidere come vivere e se accettare di avere soldi “facili” in tasca eseguendo gli ordini o se rifiutare per trovarsi ad allargare le schiere di disoccupati del meridione o cercare di lavorare senza essere costretti a partire.

Tanti sono gli studi che hanno approfondito le modalità del sorgere nei bambini della capacità di distinguere tra bene e male e lo sviluppo della moralità. In particolare al Max Planck Institute di Monaco è stata posta la domanda  su come si sente un bambino che ha rubato dolci e caramelle. L’80% ha risposto “Benissimo, i dolci erano molto buoni”. Poco prima gli stessi avevano detto, convinti, che non si ruba perché è una cosa brutta e cattiva. Il senso morale si impara e alle elementari i bambini sono in grado di distinguere i principi morali dalle regole sociali, ma da cosa o da chi dipendono i cattivi comportamenti? L’ambiente circostante è senz’altro un elemento determinante, così come l’educazione impartita dai genitori e dalla scuola. Ma c’è un dato presupposto e connaturato alla persona? In ogni modo sapere quale sia il comportamento giusto da tenere non è sufficiente a far sì che correttamente ci si comporti.

Come meglio dicono gli psicologi, se non riconosciamo l’identità dei bambini, anche cattiva, di fatto non li accogliamo ma li idealizziamo e li neghiamo come persone, sottraendoci al nostro compito affettivo ed etico. Trovare scuse ai comportamenti devianti diventa un alibi per l’adulto che idealizzando il bambino, finisce per colpevolizzarsi ritornando di fatto ad essere il centro del mondo. Bisogna accettare i bambini nel bene e nel male. Non si può però attribuire l’unica responsabilità al metodo educativo genitoriale, e non sarebbe realistico farlo, perché in tal caso non si potrebbe spiegare perché figli cresciuti nella stessa famiglia e ambiente, possano essere completamente diversi tra loro ed avere un diverso senso morale.

Già nell’antichità, tra le varie correnti di pensiero, c’era quella che presupponeva l’esistenza di una norma di condotta intersoggettiva universalmente valida e immutabile, fondata su un’idea di natura preesistente a ogni forma di diritto positivo. Si tratta del Giusnaturalismo, che considera l’esistenza di una legge naturale come istinto comune ad ogni animale. Quello che la natura insegnò a tutti gli esseri viventi. Esso non sarebbe proprio del genere umano ma comune a tutti gli esseri che nascono sulla Terra e nel mare. Da qui deriverebbe l’unione del maschio con la femmina che chiamiamo matrimonio e di qui la procreazione dei figli; di qui l’allevamento.

La devianza morale è in crescita ed è innegabile che il modello di società che abbiamo costruito rappresenti un fattore fondamentale per la qualità della morale applicata. Se il primo esempio viene dalla famiglia, subito dopo c’è l’esempio dato ai popoli dai governi. Se una struttura sociale non funziona, ed il suo scopo è preminentemente il profitto, anche a scapito del valore che si dà alla vita delle persone, non ci si può meravigliare se la violenza dei modi continua a proliferare. L’essere umano è fatto di bene e di male, far prevalere l’uno rispetto all’altro è responsabilità individuale e collettiva allo stesso tempo.

Così Dostoevskij ne I Fratelli Karamazov fa pronunciare ad uno dei protagonisti: “Ciascuno di noi è colpevole davanti a tutti per tutto e io più di tutti gli altri”.

Di chi la responsabilità della cattiveria e della violenza dei comportamenti? Dei genitori che per primi sono chiamati ad educare, a fornire gli strumenti per agire bene, ciò che è possibile se gli stessi hanno fruito a loro volta di insegnamenti e principi idonei. Ma la vita mette ognuno di noi davanti ad una continua scelta e a circostanze inaspettate che possono mettere in discussione ogni valore in cui eravamo convinti di credere.

Esemplare la narrazione de “Il Signore delle Mosche”, pellicola inglese diretta da Peter Brook, del 1963, basato sul romanzo di William Golding. Il pericolo di una catastrofe naturale induce le autorità ad evacuare gli studenti di un College. L’aereo che li trasporta precipita su un’isola disabitata. Gli adolescenti si spartiscono i compiti per sopravvivere, ma quando subentrano la stanchezza e la pigrizia, l’organizzazione iniziale cede il posto alla violenza di un gruppo di ragazzi, su tutti gli altri. Regrediti ad uno stato di istintualità primordiale i nuovi capi spadroneggiano sui più deboli ed eleggono una divinità, una testa di maiale infissa su un palo e bersagliata da nugoli di mosche, alla quale occorre dedicare sacrifici. L’emergenza degenera nella intolleranza, superstizione, violenza. È il drammatico itinerario della ragione che nell’esasperarsi delle tensioni sociali soccombe sopraffatta dall’ignoranza e dall’impulso prevaricatore. I bambini come gli adulti, una volta acquisita la capacità di discernimento hanno facoltà di scegliere la strada da percorrere e il comportamento da tenere. Uno dei principi guida nel diritto è quello del neminem laedere, il non pregiudicare l’altro ed il suo diritto. Questo principio non trova molto spesso applicazione, né tra i bambini e tanto meno tra gli adulti. L’egoismo, la brama di potere, il desiderio di rivalsa sociale, la bramosia di ricchezza sono tutti alla base di qualcosa di molto lontano dal non fare male agli altri. Le persone, per il proprio interesse personale sono capaci di calpestare chiunque possa rappresentare anche involontariamente un ostacolo al raggiungimento dei propri scopi.

Poco importa se lo scopo è mangiare una caramella o acquisire una posizione di potere. La sostanza non cambia. E se si vuole davvero che la sostanza cambi, è opportuno imparare prima di tutto a prendersi la responsabilità di ogni azione oltre che di quelle che provochiamo negli altri. Se l’umanità riuscisse a dare valore a ciò che è bene, e non bene personale, ma collettivo, allora ci sarebbe l’occasione di vivere in un mondo meno “cattivo” e più giusto. Ma siamo fermi ad un momento dell’evoluzione che ancora questo non prevede.

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