Così Giulio Cesare morì... al capolinea del tram

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Così Giulio Cesare morì... al capolinea del tram

di Giovanni Curatola

Furono gli scavi di epoca fascista, nell’attuale Largo Argentina (Roma), a riportare alla luce, vicino la zona dei templi sacri, parte dei resti del porticato e del muro di cinta della Curia di Pompeo,  dove occasionalmente si riuniva il Senato quando il Campidoglio era indisponibile. Si fece così chiarezza sull’esatto punto in cui l'edificio sorgeva, e fu così possibile risalire, con approssimazione di pochissimi metri, al punto esatto in cui fu assassinato Giulio Cesare. Sconosciuto e dunque ignorato per secoli dalla popolazione romana e dai turisti, il luogo non può essere oggi aperto al pubblico perché trovasi almeno 3 metri sotto terra, ricoperto dal pietrame e, più in superfice, dall'asfalto. Dalla sovrapposizione della pianta del teatro di Pompeo (di cui la Curia era l'estremità opposta all'entrata principale) a quella della Roma di oggi, vien fuori che il punto dove Cesare morì corrisponde, 3 metri più in basso come detto, alla finestra a destra dell'ingresso n.47 di via di Torre Argentina, dove fino a poco tempo fa faceva capolinea il tram n.8.

Sottratti alle rivisitazioni romanzate di libri, film e rappresentazioni teatrali (famosa, ma fantasiosa, quella di Shakespeare), gli ultimi istanti di vita del dittatore emergono realmente quali furono dalle testimonianze lasciate da Svetonio, Tito Livio, Plutarco, Appiano, Cicerone e Velleio Patercolo. Sulla dittatura di Cesare, iniziata sul finire del 49 a.C. quando varcò il Rubicone per marciare contro il Senato romano e cacciar via da lì Pompeo, si son scritti fiumi d’inchiostro. Come sempre accade per ogni dittatura, la storiografia non è mai concorde se definirla benevola o tirannica. Al di là dei singoli giudizi, restano le profonde riforme della società, dell’esercito, dell’economia e della politica romane apportare da Cesare. Assai gradito alla sua popolazione (con cui era solito dividere i bottini delle sue conquiste), venerato dai suoi legionari (con cui condivideva stenti, cibo e giacigli), amministratore attento e oculato, stratega militare senza eguali, magnanimo e clemente fino all’irritazione dei suoi verso gli avversari (pompeiani in primis), artefice della rinascita architettonica dell’Urbe, amante dei piaceri della vita (donne e lussi inclusi) ma modesto al punto di saperne anche rinunciare.

Invidia, rancore e sete di potere camuffati da desiderio di liberare Roma dalla tirannide, portarono il 15 marzo del 44 a.C. (Idi di marzo) alla congiura di una sessantina di senatori ai suoi danni. Dovevano far presto: 2 giorni dopo Cesare sarebbe ripartito. Ma, tolto di mezzo il “tiranno”, la Repubblica Romana anziché rinascere sprofondò paradossalmente in un disordine sociale, un’anarchia politica e una debolezza militare da cui ne uscirà a fatica e dopo molto tempo.

E dire che prima dell’uccisione di Cesare, l’aruspice Spurinna gli predisse che nei prossimi 30 giorni, che terminavano con le Idi, la sua vita sarebbe stata in pericolo. Spavaldo, il dittatore non le diede conto. Anzi, proprio la mattina del 15 marzo la investì ironico dicendole che le Idi erano arrivate. “Si, - rispose l’aruspice - ma non sono ancora passate”. Tanto sarebbe bastato a consigliare prudenza a Cesare, che poche ore dopo era atteso in Senato per discutere questioni di media importanza. A ciò si aggiunga che la stessa moglie del dittatore, Calpurnia, aveva sognato la notte prima la morte del marito, e che i sacrifici ordinati quel giorno erano risultati sfavorevoli (era in uso a quei tempi uccidere animali per offrirli alle divinità, e analizzandone gli interiori si traevano segni premonitori).

Invitato a disertare il Senato, dove già i senatori congiurati stavano giungendo col pugnale sotto la tunica, per un attimo anche Cesare fu titubante. Probabilmente sarebbe rimasto a casa se Decimo Bruto, uno dei maggiori congiurati, non lo avesse convinto ad andare per non offendere i senatori già presenti in Senato e da lui stesso convocati. Questi si erano dati poco prima appuntamento nell'attuale piazza Venezia. Così il dittatore accettò di andare, e poco prima di mezzogiorno, non si sa se a piedi o in lettiga, si presentò in Senato. La congiura prevedeva che i reparti militari più fedeli a Cesare fossero quel giorno tenuti lontano dal Senato con svariati pretesti, e che i senatori più vicini al dittatore (come Antonio) fossero intrattenuti fuori dal congiurato Trebonio.

Quando Cimbro si avvicinò a Cesare seduto sullo scranno con la scusa di una petizione, a un certo punto gli tirò la toga verso il basso. Era il segnale. Fu poi la volta di Publio Servilio Casca (di cui Cesare non poteva certo diffidare) a sferrare la prima pugnalata da dietro, sul collo. I pugnali degli altri congiurati fecero poi il loro corso. La frase “Pure tu, Bruto, figlio mio…!”, messagli teatralmente in bocca da Shakespeare, Cesare non la pronunciò mai. Il delitto si svolse assai più rapidamente di quanto ricostruito a posteriori. Tutti concordano però sul fatto che Cesare ferito si alzò in piedi, ma fece solo pochi metri e cadde rotolando per le scale sino al basamento della statua di Pompeo (al centro dell’aula). Qui i pugnali di Bruto e Cassio lo finirono. Dovevano essere le 12.15 circa. Fra i senatori, congiurati che non, ci fu subito il fuggi fuggi: chi per paura di essere uccisi dai soldati di Cesare, chi per paura di fare la fine del dittatore. Che rimase qualche istante beffardamente lì, ai piedi del suo più fiero nemico. La statua di Pompeo  è oggi conservata a Palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato. Alta ben 3 metri, sulla sua autenticità non vi sono dubbi. Ed è altamente probabile che fu quella statua l'ultima immagine che il dittatore vide prima di spirare. Da terra, solo e abbandonato da tutti. Anche dal tram n.8...

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