Paolo Pacchioni - <<Il giornalismo non è morto>>9/7/2022
Paolo Pacchioni - <<Il giornalismo non è morto>>9/7/2022
di Roberto Dall’Acqua
Come spesso capita, è stato un incontro casuale a decidere tutto. Il mio sogno, fin da quando frequentavo le scuole elementari, era fare il radiocronista sportivo. Per pura passione, mentre frequentavo l’università, avevo iniziato a collaborare – gratuitamente – con una piccola radio della provincia di Milano. Per loro un sabato pomeriggio andai a seguire una partita di serie C, era Pro Sesto-Modena, finì 0-0. Iniziai a chiacchierare con il collega seduto accanto a me in tribuna stampa; mi raccontò che lavorava a RTL 102.5, che di lì a poco sarebbe partito per seguire il Giro d’Italia di ciclismo. Aggiunse poi che stavano cercando un giovane da portare per dare una mano, mi propose di fare un provino, io ovviamente andai di corsa. Superai la prova e dopo una settimana partii con il gruppo RTL per Perugia, da dove quell’anno scattava il Giro. Era il 1995, avevo 22 anni, da allora non ho più cambiato squadra.
- Biagi, Montanelli, Pansa, Scalfari. I tuoi miti giornalistici?
Sono tutti giganti, in questa rosa scelgo Enzo Biagi, capace di spiegare cose difficili anche alle persone meno preparate. Come detto, il mio sogno era fare il radiocronista. Quindi il mio mito giovanile è stato Enrico Ameri: un cronista enorme e moderno, sarebbe attuale anche adesso. Ritmo velocissimo, gran capacità descrittiva, entusiasmo trascinante.
- Il tuo ricordo, professionale, più emozionante.
Ero in turno sui notiziari l’11 settembre 2001. Aprii l’edizione delle 15.00 con la notizia di un incidente aereo a New York, mentre ero in onda dai monitor vidi un secondo aereo schiantarsi contro le Torri Gemelle; in quel momento fu chiaro a tutti che non si trattava di un incidente e che eravamo di fronte a un momento storico, oltre che drammatico. A RTL 102.5 allestimmo uno speciale in diretta che durò 48 ore, naturalmente arrivarono anche gli altri colleghi della redazione, io comunque restai in onda fino all’alba del giorno dopo. Se invece parliamo di esperienze sportive, cito le radiocronache delle partite che hanno portato l’Italia a vincere il Mondiale (nel 2006, finale di Berlino contro la Francia) e l’Europeo (nel 2021 a Wembley contro i padroni di casa dell’Inghilterra)
- Social o non social? Il giornalismo è morto?
Mi rendo conto di essere un po’ retrò, ma non sono iscritto ai social, non li frequento, non mi interessano. Detto questo, anche i social possono servire per far circolare una notizia e un giornalista deve tenerne conto. Ma se mettiamo tutto sul piatto della bilancia sono più i danni dei benefici, basti pensare alle fake news che spesso circolano in rete senza controllo. Il giornalismo non è morto, e deve resistere per fronteggiare la deriva portata dai social; c’è ancora bisogno di chi scrive una notizia dopo averla verificata, c’è ancora bisogno di una analisi di un professionista competente che conosce davvero l’argomento che sta trattando.
- Come vedi il tuo futuro? Obiettivi personali e professionali.
Purtroppo è un po’ cambiato il modo di fare informazione. Comprensibilmente con gli ultimi chiari di luna gli editori pongono in primo piano il contenimento dei costi, per questo si da maggior importanza alla quantità rispetto alla qualità. E’ così quasi ovunque, bisogna farsene una ragione. Ho avuto la fortuna di aver fatto a lungo l’inviato e di aver seguito di persona, dal vivo, molti avvenimenti sportivi e non solo. Ora si segue tutto dalla redazione guardando la TV. Ma non voglio fare il lamentoso: non sono dispiaciuto perché non giro più, sono contento e grato per averlo fatto per vent’anni.
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