"Marco Massa", il disco che racconta un uomo intero

28 November 2025

Certe interviste non cominciano davvero con una domanda: iniziano con un’atmosfera.
Con Marco Massa è successo così. Bastano pochi minuti al telefono e senti che non stai parlando solo di un disco, ma di un uomo che quel disco lo ha abitato prima ancora di registrarlo.

Il suo nuovo album, Marco Massa, è una scelta che non ha bisogno di spiegazioni: se dai il tuo nome a un disco significa che sei pronto. A mostrarti, a metterti in discussione, a raccontare una verità senza filtri. Marco lo fa con un doppio LP in bianco e nero che è insieme memoria, ricerca, intimità, e soprattutto dialogo. Un dialogo con sé stesso, con la musica, con Milano, con suo figlio, con la vita che cambia.

E così la conversazione diventa quasi un incontro a metà strada tra confessione e lucidità.

Marco, partirei proprio da questa scelta così diretta: dare il tuo nome al disco. Che gesto è stato?

«Guarda, questo album è proprio una fotografia. Anche fisicamente: un doppio LP in bianco e nero, essenziale. È come se avessi messo me stesso al centro del quadro. Il vinile nero è più elettronico, di ricerca. Il bianco invece è mio, totalmente mio: chitarra, voce, tutto in presa diretta. Come suonavo da ragazzo, attorno ai tavoli, sui muretti al Sud… quella parte della mia vita è il mio grembo sonoro.»

Il disco bianco infatti sembra un luogo privato, quasi domestico. Cos’è per te quella dimensione?

«È il modo più sincero che ho per raccontarmi. L’ho registrato come si farebbe tra amici: niente filtri, niente perfezionismi. È il disco a cui sono più affezionato, perché mi descrive meglio. Lì dentro senti chi sono davvero.»

E dall’altra parte c’è il vinile nero, pieno di atmosfere nordiche, sospese…

«Sì, è ispirato molto al Nord Europa. Paesaggi crepuscolari, suoni sospesi. Il lavoro con Marco Grasso è stato fondamentale. E poi c’è mio figlio, Francesco, al clarinetto: con lui si crea un dialogo tenero, quasi un racconto tra generazioni. In questo disco suono anche tanto la tromba. L’ho studiata perché la sua voce mi assomiglia. Ho cercato la mia voce dentro la tromba.»

Se dovessi trovare un filo rosso che tiene insieme questi due poli, qual è?

«Il dialogo. È un confronto continuo tra chi sono ora e quello che sono stato.»

Milano è sempre più di una città nei tuoi lavori. Che Milano respira questo album?

«Una Milano che non riconosco più del tutto. È una città in costruzione e in distruzione allo stesso tempo. L’ho amata tantissimo, la amo ancora, ma ora c’è un divario enorme tra ricchezza e povertà che fa male. La Milano che ho conosciuto era solidale. Oggi lo è molto meno. Io glielo dico in Cara Milano, che infatti nel disco c’è in due versioni diverse.»

Se dovessi trasformare questa Milano in un colore, quale sarebbe?

«Paradossalmente… il grigio. Ma il grigio di una volta, quello pieno di dignità. Non per nostalgia: per verità.»

In molte tue risposte torna l’idea di osservazione. Da dove nasce davvero una tua canzone?

«Dall’osservazione, sì. Sono una spugna. Non mi piace definirmi: jazzista, cantautore, contaminatore… no. Io cerco. Osservo, studio, mi sporco le mani. E poi qualcosa nasce. Non so cosa, ma nasce.»

Dal vivo però le tue canzoni non sono mai identiche. Perché?

«Perché la vita non è mai identica. Ogni volta che canto, sono un uomo diverso. Cara Milano, per esempio, non la canto mai uguale. È impossibile. Se la fissi, la uccidi. Una canzone deve respirare con te.»

La tua voce è diventata uno dei tuoi strumenti più riconoscibili. Quando l’hai capita davvero?

«Tardi. Io ero innamorato degli strumenti, non pensavo alla voce. Poi ho capito una cosa semplice e enorme: la voce sei tu. È il tuo sangue, la tua pelle. È lo strumento più difficile del mondo. Da allora l’ho studiata, la studio ancora. Non finisce mai.»

Guardando indietro, quale consiglio daresti al Marco dei primi anni?

«Di credere un po’ di più in se stesso. Per tanti anni mi sono sentito meno degli altri. Ho vinto premi importanti: Musicultura, Sergio Endrigo, Franco Enriquez; e non capivo perché li avessi vinti. Ora lo so: perché ero vero. Ma ci ho messo tanto ad accorgermene.»

E se chi ascolta questo disco potesse portarsi via una sola cosa?

«Le diverse verità. Non una sola. Le sfumature. Vorrei che chi lo ascolta sentisse che si può essere molte cose allo stesso tempo.»

di Giorgia Pellegrini

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