Giudizio e Pregiudizio10/2/2020

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Giudizio e Pregiudizio10/2/2020

di Avv. R. Patrizia Tripodi

Foto di Alberto Korda - Museo Che Guevara, Havana Cuba

Nessuno ha diritto di giudicare gli altri”. Quante volte si sente dire una frase come questa? Niente di più falso, secondo me. Qualunque essere razionale non può fare a meno di giudicare. Essere in grado di farlo è essenziale per la nostra esistenza; saper giudicare persone e situazioni è ciò che ci permette di fare le scelte più importanti per la nostra vita. 

Bisognerebbe invece pronunciare con forza: “Nessuno ha diritto di pregiudicare gli altri”. Ogni nostra idea ed ogni comportamento nasce da un giudizio. Giudizio, una parola troppo poco compresa nella sua essenza e troppo spesso bistrattata benché nulla di negativo in essa si annidi. È la capacità individuale di valutare e definire. Nel diritto è l’attività logica del Giudice, consistente nell’applicare le norme di legge al fatto da lui accertato; in senso più ampio tutta l’attività che si svolge dinanzi all’autorità giudiziaria per giungere al pronunziato finale, alla sentenza, ossia alla decisione; é l’uso della ragione per giungere ad una decisione. 

La discussione filosofica sul tema della giustizia e della ragione, in contrapposizione alla passione, è molto ricca, fin dai tempi di Socrate, Aristotele, fino ad arrivare a Kant, HegelMarx senza dimenticare Montesquieu ovvero Charles Luis de Secondat, barone di La Bréde e di Montesquieu, che a dispetto dei suoi natali aristocratici teorizzò la suddivisione in Legislativo, Esecutivo e Giudiziario, del potere dello Stato, per riconoscere la libertà politica ad ogni singolo cittadino. Egli sosteneva che un’ingiustizia fatta all’individuo è una minaccia a tutta la società. E l’ingiustizia sorge proprio dal pregiudizio che è l’opinione concepita sulla base di convinzioni personali e prevenzioni generali, senza una conoscenza diretta dei fatti, delle persone, delle cose, tale da condizionare fortemente la valutazione, e da indurre quindi in errore. Saper giudicare impone di affacciarsi alle circostanze con l’animo sgombro da pregiudizi. Pregiudizio è anche il danno che può derivare agli interessi di una persona da un atto che, appunto, la pregiudichi e la comprometta.

Dove si radica la grande quanto comune paura del giudizio altrui tale da considerarsi marchiata a fuoco nel nostro DNA? Aristotele affermava che l’uomo è un animale sociale e tende per sua natura ad aggregarsi ad altri individui e costituirsi in società. Il perché è da ricercarsi nel processo evolutivo: nel Paleolitico, chi viveva in un gruppo di cacciatori e raccoglitori aveva una probabilità di sopravvivenza molto più elevata dei cosiddetti lupi solitari. Vivere in gruppo consentiva di sopravvivere più facilmente in un ambiente ostile grazie alle capacità dei singoli. In questo contesto, essere malgiudicati significava rischiare di essere esclusi dal gruppo e questo si traduceva in un elevato rischio di morte precoce. L’esclusione poteva essere conseguenza del mancato adempimento del proprio dovere durante le battute di caccia, del mancato rispetto delle convenzioni sociali, o dal manifestare la propria opposizione al leader. Da qui prende forma anche un’altra paura ancestrale: la paura di parlare in pubblico. Leggendo queste poche righe si può sostenere, che ancora oggi continuiamo in una certa misura a vivere nel Paleolitico e che il cosiddetto processo evolutivo non sempre corrisponde a veri passi avanti perché restano manifesti ed insuperati gli stessi processi mentali delle origini della società che ci collocano allo stesso livello degli ominidi. 

Le fondamenta della paura risiederebbero pertanto nell’istinto di sopravvivenza. Essere amati ed accettati da chi ci circonda è uno dei bisogni umani essenziali. Lo psicologo, Abraham Maslow, nel 1954, propose un modello motivazionale dello sviluppo umano basato su una gerarchia di bisogni, disposti a piramide, per la quale la soddisfazione di quelli più elementari è condizione necessaria per fare emergere quelli di ordine superiore. Nella Piramide di Maslow il bisogno di appartenenza si colloca al terzo gradino, subito dopo il bisogno di sicurezza (salute, lavoro etc.). Tale bisogno è così importante che una delle paure più diffuse è quella del giudizio degli altri. Temiamo di non venire accettati a causa del nostro aspetto fisico, delle nostre origini, del nostro livello di educazione, del nostro lavoro, della nostra età e così via. Il fondamento di questa paura è il timore dell’umiliazione, dell’esclusione dal gruppo, dell’emarginazione. Gli psicologi sostengono che tale timore in alcuni può trasformarsi in fobia.

Il giudizio altrui viene quindi ancora oggi vissuto da molti, come un macigno di cui non riusciamo a non sentire il pesoIl più bel film sul tema del giudizio è “La parola ai giurati” di Sidney Lumet, con un magnifico Henry Fonda che in quest’opera dà prova della propria grandezza attoriale. Fu proprio Fonda a produrre il film tratto da un testo di Reginald Rose, e ad affidarne la regia al giovane Sidney Lumet. Si tratta di un dramma processuale che si sviluppa fuori dal Tribunale, con l’eccezione del prologo, e per questo un unicum nel proprio genere. Un capolavoro la sceneggiatura, un capolavoro la regia, un capolavoro il film, che valsero alla pellicola la conquista dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino e tre nomination agli Oscar. Dopo 63 anni, questo film non ha perso un grammo della sua importanza e continua a manifestare tutta la sua attualità. Una vera lezione di etica, come qualcuno lo ha definito. Il titolo originale è 12 Hangry Men (12 Uomini Arrabbiati). 12 uomini che nel testo originale non hanno neppure un nome (vengono identificati attraverso un numero), sono chiamati a elaborare un verdetto al termine di un processo per omicidio. L’imputato, accusato di aver pugnalato a morte il padre, è un ragazzo di 18 anni, dei bassifondi di New York ed appartenente ad una minoranza etnica non specificata (il regista infatti gli dedica un unico fugace primo piano); le testimonianze contro di lui sembrano schiaccianti così come le circostanze del delitto, ma al principio di una seduta che si preannuncia molto rapida, sorprendentemente qualcuno si esprime per l’innocenza dell’imputato: è il giurato numero otto, un uomo pacato e riflessivo a cui presta il volto il grande Henry Fonda. Egli costringerà i suoi colleghi a riprendere in esame tutti gli elementi del processo, ricordando loro l’imprescindibile valore del ragionevole dubbio e incrinando un verdetto che pareva già emesso. In un torrido pomeriggio newyorkese si consuma in una claustrofobica arena, uno scontro giuridico, morale e psicologico. Lumet ci regala una rappresentazione accurata della personalità di ciascuno dei dodici protagonisti e nel fare questo, costruisce minuto dopo minuto, uno specchio sul quale si riflette l’immagine della classe media dell’America degli anni ’50. Ma rappresenta un perfetto affresco della mentalità dell’uomo medio di oggi e qui. Il personaggio interpretato da Henry Fonda rappresenta un elogio al valore della ragione e della parola, del pensiero critico, della riflessione che non si ferma alla superficie delle cose ma che induce lo sguardo limpido del giurato numero otto a penetrare nel profondo della realtà di cui occorre fare un’attentissima analisi. Fanno da contraltare a questo sguardo, gli sguardi offuscati degli altri giurati. C’è tra gli altri chi è disposto a confrontarsi con il dubbio e chi parla seguendo gli istinti più immediati; la frustrazione, la rabbia e primo tra tutti, il pregiudizio. Il discorso del giurato che rappresenta questi ultimi potrebbe aderire come carta carbone a quelli che sentiamo ogni giorno o che leggiamo sui social o su alcuni giornali e che sono carichi di diffidenza, paura, odio e che trasudano ignoranza, meschinità, razzismo; che inneggiano alla giustizia sommaria senza mai farsi sfiorare da un dubbio.

Il  delitto lo commette chi tende, in nome di questi orribili ed incivili elementi, ad abdicare all’uso della ragione. 

Ernesto Guevara diceva: “Siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo”. 

È la qualità più bella di un buon rivoluzionario.


Studio legale Patrizia Tripodi

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