India anno zero24/12/2018

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India anno zero24/12/2018

Testo e foto di Adriana Saja

Sono arrivata in India l’8 dicembre del 2018 alle 8 del mattino, per la mia prima volta. Ma già in aeroporto a Roma, in partenza per Delhi, la sera del 7 e poi soprattutto in aereo, ne avevo conosciuto gli odori. Li ho subito individuati perché del tutto diversi da quelli usuali, italiani o europei. Immediatamente distinguibili nei loro profumi e diverse flagranze.Il  suo lezzo ha preceduto il mio approdo dall’aria e l’olfatto il mio primo senso coinvolto. Ho anche provato fastidio. Un uomo emanava un odore estremamente intenso. Seduto accanto a me, le essenze dei suoi fluidi corporei erano veramente sgradevoli per il mio naso. Ho dovuto pregare la hostess di cambiarmi di posto, giacché non avrei sopportato di restare accanto a lui per tutto il tempo del volo,  sveglia e a disagio. Un odore non gradito e più difficile da sopportare per me di una cosa vista o ascoltata. Mi spostai di posto qualche fila più avanti accanto ad una coppia napoletana, entrambi davvero simpatici. A parte qualche chiacchiera, la cena e un po’ di lettura, per tutto il tempo della traversata ho dormito beatamente, sicché atterrata a Delhi mi sentivo benissimo e riposata. Fu una fortuna, considerato quello che dovetti affrontare dopo, per quelle illogicità e infantili stranezze  tipicamente indiane di cui non finirò mai di stupirmi.

 

 

 

 

 

 

 

Gokarna Middle Beach

Ero in transito per Goa e avevo circa tre ore a disposizione prima della partenza del nuovo volo. Una graziosa ragazza greca, compagna di viaggio, con la quale avevo intrapreso una breve conversazione,  mi propose di uscire fuori dall’aeroporto per fumare una sigaretta nello smog irrespirabile della città, ma all’aperto. Ignara di quanto quella sigaretta mi sarebbe costata,  dopo aver sbrigato  le pratiche di immigrazione e cambiato una piccola somma di denaro, attraversammo l’atrio ed uscimmo in strada. La pignoleria degli Indiani in fatto di visti e procedure per l’immigrazione è semplicemente snervante. Infinite domande e informazioni richieste in infiniti moduli da compilare, rilievo delle impronte digitali e una scannerizzazione, non ho capito bene se fosse solo una ulteriore fotografia, riguardante il mio viso o gli occhi. Non può esserci straniero che entri legalmente sul suolo indiano che non sia stato radiografato dalla testa ai piedi. Si può comprendere certo che uno stato adotti tutte le misure di sicurezza necessarie a proteggere un paese grande come l’India,  non privo di contraddizioni e contrasti interni. Dunque ogni precauzione per la sicurezza delle persone è benvenuta. Ma qui si resta interdetti di fronte a palesi, semplici ed evidenti non sense. Solo col tempo si impara ad accettarli e persino ad amarli. Rientrate in aeroporto, dopo aver gustato la nostra sigaretta, il volo era durato sette ore, ci salutammo e dividemmo, ognuna in una direzione diversa. Lei andava a Calcutta, io a Sud.

Era già trascorsa più di un’ora dal mio arrivo a Delhi quando, anche se mancava ancora diverso tempo, decisi di avviarmi verso il gate d’imbarco, desiderando  gustare ogni momento del mio essere in India, con calma e disponibilità di tempo per l’osservazione. Non volevo lasciarmi sfuggire nessun particolare di questo mondo, il più orientale io abbia mai visitato, e gustavo contenta, attimo per attimo, tutte le novità dei miei sensi. Migliore disposizione emotiva non potevo avere. Arrivata all’uscita, fui fermata dalla signorina addetta ai controlli dei pass e rimandata indietro. Non potevo entrare nella area partenze. Il motivo era una lettera sbagliata. Una T anziché una D, stampata sulla mia carta di imbarco. Quale fosse la differenza tra le due lettere lo capii solo in seguito.  Chiesi quindi informazioni ad una addetta in aeroporto, che si trovava in uno stand vicino. A quel punto, già un po’ all’erta, chiesi notizie anche dei miei bagagli, che essendo in transito, sarebbero dovuti essere direttamente imbarcati sull’aereo. Erano spariti. La situazione non si presentava affatto semplice, al contrario c’erano degli intoppi evidenti che non sapevo immaginare quali sbocchi potessero avere. Che ne era stato delle mie valigie? Erano rimaste a Roma? Le avrei riviste?

Avendo ormai rinunciato a comprendere la complessità delle procedure normative indiane, e disponendomi nel  migliore dei modi ad affrontare la situazione per tentare  di risolverla, mi addentrai mio malgrado nel cuore delle relazioni burocratiche tra i vari uffici aeroportuali di questo superbo paese. Il che si tradusse, in pratica, nel camminare per quasi altre due ore all’interno dell’aeroporto, da un posto all’altro, ai quali si accedeva rigorosamente previo controllo poliziesco e presentazione  del passaporto ad una guardia armata ferma davanti ogni ingresso, che ti squadrava dalla testa ai piedi. Un tantino antipatiche, queste guardie,  nel modo di fare rude e nell’atteggiamento aggressivo. Da un ufficio ad uno diverso, da una postazione ad una nuova, mi limitavo a seguire in silenzio, o cercando di intervenire il meno possibile, un dipendente della sezione bagagli che aveva in mano la gestione del caso e un pass con diritto di entrata senza riserve. Ad ogni passaggio doveva però scrivere qualcosa in un registro, compreso i miei dati identificativi. Pazzesco. Ed anche lui era soggetto al controllo dell’agente di polizia. Così spesso dovevamo fermarci diversi minuti, durante i quali i due indiani parlavano animosamente, a volte dirigendo lo sguardo e gesticolando nella mia direzione. Facevano obiezioni per la mia presenza o semplicemente chiedevano spiegazioni sulla motivazione per la quale dovevamo entrare nell’area bagagli in arrivo, la nostra destinazione finale?  Non potevo saperlo.

Ero parecchio  contrariata, odiando la burocrazia con le sue inutili perdite di tempo. Preoccupata per le mie valigie, ogni tanto ne chiedevo conto e ragione, parlando concitatamente e con malcelato nervosismo. Tra poco tempo sarebbe partito il volo per Goa e dunque avevo fretta di risolvere la questione. Dopo estenuanti percorsi e decine di domande con altrettante decine di risposte incerte o contraddittorie, compresi che il problema era un sospetto power bank, rilevato evidentemente dai detectors, che non si poteva trasportare in un  bagaglio da stiva. Il fatto era illegale e costituiva reato. Le mie insistenze nel dichiarare che non avevo l’oggetto proibito  e nel  negare  qualsiasi contestazione,  furono del tutto inutili. Non c’era modo di dissuaderli. Si erano convinti del contrario. Inoltre nessuno portava i miei bagagli e mi invitava ad aprirli in modo da verificarne il contenuto, cosa che sarebbe stata la più semplice e la più logica. No. Restavano fermi e bloccati non so dove, in qualche angolo a me nascosto nel caos stordente di un via vai continuo di gente di ogni etnia, nella confusione e nel frastuono di un aeroporto grandissimo, scalo internazionale di voli provenienti da ogni dove.

Intanto il tempo passava ed io rischiavo seriamente di perdere il volo e forse anche i soldi del biglietto. E non per colpa mia.  Mi ero ormai  arresa alle loro decisioni, desiderosa soltanto di andarmene via a qualunque costo. Alla fine dei due bagagli me ne consegnarono uno solo e mi accompagnarono al gate per farmi partire. Avevo perfettamente capito che protestare non serviva a niente. La seconda valigia, più piccola,  sarebbe arrivata con lo stesso volo, ma il giorno dopo. Perché non mi era concesso saperlo. Inutile chiederlo. Non ricevevo risposta. Dovevo cambiare dunque i miei programmi e restare almeno una notte a Goa, anziché andare direttamente in taxi a Gokarna, nel Karnataka,  come avevo deciso. Abituata agli imprevisti e non solo dei viaggi, dove sono solo più frequenti, non certo unici, arrivai al gate dell’imbarco, con disappunto ma rassegnazione. La  questione non era però affatto finita, come ingenuamente avevo sperato. Non potevo ancora partire e fui bloccata di nuovo. L’aereo con tutti i passeggeri a bordo, fermo in pista e pronto al decollo, aspettava me.  Io li fissavo incredula, volgendo lo sguardo ora all’uno ora all’altro degli impiegati aeroportuali, parlarsi tra loro o al telefono, con un misto di disorientamento, preoccupazione e agitazione, stanca di tre ore di inutile stress. Delhi non mi lasciava andare. Quasi mi avesse catturata davvero e non solo emotivamente.

(...continua)

 

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