Il sindaco con due mogli
11 September 2016
di Duilio Parietti
(Albus Edizioni)
1° capitolo
Uscendo dalla porta, quel venerdì, Aldo si sentì svuotato. Appagato ma nello stesso tempo amareggiato e non certo orgoglioso di se stesso. Quella donna giovane, bella e provocante, l'aveva soddisfatto lasciandogli però un retrogusto che difficilmente riusciva a interpretare... senso di colpa? Si forse era proprio questo il sentimento che andava delineandosi, prendendo il sopravvento sulla soddisfazione di quell'atto quasi animalesco.
Come al solito si calò il berretto sul capo calvo e si alzò il bavero del cappotto. Infilò un paio di vecchi Ray Ban sugli occhi, e si mischiò alla folla che in quel giorno d'autunno sembrava particolarmente frenetica. Come le volte precedenti percorse la stretta via con addosso l’ansia di incontrare qualcuno che potesse riconoscerlo. Sarebbe stata la fine per la sua carriera. La candidatura a sindaco nella prossima legislatura sarebbe stata considerata incompatibile dalla maggior parte dei suoi concittadini, solo apparentemente aperti e moderni, con il suo comportamento. Ben in pochi avrebbero dato fiducia a un candidato, apertamente cattolico praticante e regolarmente sposato, che soleva soddisfare i suoi bisogni sessuali a pagamento.
Guardò l'orologio: mancava solo mezz'ora alla seduta di partito che avrebbe dovuto formalizzare la sua aperta candidatura alla guida della città. Si mise le mani in tasca, tolse gli occhiali che ormai non servivano più, e si lasciò trasportare dalla folla che correva incontro al proprio weekend, progettando riposo, gite, pranzi con i propri cari e ore serene con la persona amata. Il suo fine settimana sarebbe invece stato la replica del solito cliché: monotonia e noia, con due figli che a fatica nascondevano il loro astio nei confronti di un padre che non stimavano gran che, e una donna che sprofondava, giorno dopo giorno, nella piattezza e nella sciatteria.
Non poteva continuare così, quella vita lo stava inaridendo. Con questo pensiero in testa varcò il portone dell'antico palazzo ottocentesco che ospitava la sede del partito. Si tolse il berretto, passandosi una mano sul cranio lucido, si slacciò il cappotto e indossò il suo sorriso migliore. Il futuro sindaco doveva apparire sempre sereno e soddisfatto dalla vita.
'Fan culo mia moglie, 'fan culo le donne! Aldo scese le scale di marmo, quasi levitando. Era ufficialmente il candidato sindaco del suo partito colui che, stando al sentore popolare, la prossima primavera avrebbe preso in mano le redini della città. Aveva salito le scale, un paio d'ore prima, sull'orlo della depressione, ora le discendeva con un umore ben diverso. Il sangue tornava a scorrere nelle vene e il suo corpo era carico di nuova energia. Si sentiva forte, invincibile, cattivo...
Percorse le poche centinaia di metri che lo dividevano dall'autosilo, pagò una cifra esorbitante per il parcheggio e si ripromise che, se fosse diventato sindaco, avrebbe fatto qualcosa: i prezzi dei parcheggi pubblici andavano assolutamente abbassati! Altro problema su cui avrebbe dovuto chinarsi era il traffico: inammissibile rimanere imbottigliati ogni sera in strada.
Ecco, il buonumore se ne stava già andando, ma non era il prezzo del parcheggio o il traffico a incupirlo, se ne rendeva ben conto. Era una sensazione che conosceva bene, la provava regolarmente ogni giorno. Il ritorno a casa stava ormai diventando quasi un supplizio. Avvertì un nodo allo stomaco e inconsciamente alzò il piede dall'acceleratore, quasi a rimandare il rientro. Non ne poteva più di quella vita. La piattezza della moglie lo stava uccidendo. Aldo fece una scommessa con se stesso. Avrebbe messo qualsiasi cifra sul piatto puntando sulle prime dieci battute di Marta che, più o meno in ordine cronologico sarebbero state:
“Ciao caro”,
“Sei stanco?”
“Andata bene oggi?”, (dimenticandosi che quella sarebbe stata la giornata più importante della carriera politica del marito),
“Vai a metterti le pantofole calde, sono sul termosifone”, (variante estiva: “Vai a metterti le ciabatte, avrai i piedi tutti sudati”,
“Se vuoi, hai il tempo per farti una bella doccia! La cena sarà, pronta tra un quarto d'ora”,
“Ah caro, c’era posta?”
Poi c’erano le previsioni del tempo:
“Domani dovrebbe essere una bella/brutta giornata”, (in base a quello che aveva sentito poche ore prima in radio.)
“Oggi è stata una giornata dura, ma penso anche la tua… “
Sarebbero seguite le informazioni sui figli:
“I ragazzi sono in camera/sono fuori.”
Quindi l’avrebbe raggiunto, con la vestaglia che puzzava di fritto, e abbracciandolo gli avrebbe sussurrato:
“Ti amo caro.”
Già, perché Marta lo amava, lo amava davvero. Questo era il problema. Lo amava di un amore appiccicoso e monotono, che piano piano gli stava ingrippando i gangli del cervello.
Quante volte aveva pensato di chiudere quella storia. Quante volte aveva cercato di intavolare il discorso e dire a Marta che urgeva una soluzione, che quella vita non poteva continuare, che avevano quarant'anni e non potevano sacrificare il resto della loro esistenza in favore di un sentimento che, ormai, era solo l'ombra di ciò che era stato, ma ogni volta che credeva di essere arrivato al dunque, qualcosa lo frenava. Il fatto era che l'amore di Marta, così assoluto e totale, lo metteva in crisi.
Con quella riflessione scese la stretta rampa che introduceva al garage sotterraneo di casa e si preparò al solito rito serale.
Aldo abitava in una villetta posta in zona collinare a poche centinaia di metri dal confine con l'Italia. Alla morte dei genitori, avvenuta a causa di un tragico incidente d'auto una decina d'anni prima lui, Marta, e i due figli, vi si erano trasferiti vendendo l'appartamento che possedevano in centro città. La moglie, nel giro di pochi mesi, aveva letteralmente ribaltato la casa, dentro e fuori.
Aveva fatto abbattere dei muri interni, ricavandone un'enorme sala. La cucina, completamente a vista, era stata annessa al salone secondo la moda del momento. Al piano superiore erano state ricavate le camere dei ragazzi, ognuna con un piccolo bagno, la camera matrimoniale e uno studio, dove Aldo lavorava e leggeva quando voleva starsene tranquillo. L'arredamento era una sorta di miscellanea di stili. Preponderante era il moderno, ma abbinato a pezzi d'antiquariato e rustici.
Questi oggetti, scelti accuratamente e con gusto, si sposavano a meraviglia con il mobilio più moderno, creando un mix caldo, accogliente e molto personale. A distanza di anni Aldo era ancora innamorato di quella casa, che avrebbe tranquillamente potuto figurare sulle pagine patinate di qualche rivista di arredamento. Marta, che si era buttata a capofitto in quel progetto disegnando lei stessa qualche mobile e andato per antiquari alla ricerca dei pezzi giusti, era stata davvero brava, questo le andava riconosciuto.
Salì la scala interna, che dal garage portava direttamente in sala, aprì la porta e si sentì inondare dallo stuzzicante aroma di arrosto che la moglie preparava regolarmente ogni giovedì sera. Abitudinaria anche in cucina ma, almeno questo, era un rito piacevole.
«Ciao caro»,
«Sei stanco?»
«Andata bene la giornata?» lo accolse Marta dimenticandosi, come previsto, che quella avrebbe potuto essere la giornata della sua consacrazione alla candidatura di sindaco.
«Vai a metterti le pantofole calde, sono sul termosifone», continuò la moglie,
«Se vuoi hai tempo per una doccia calda...»
Quella sera non aveva proprio voglia di sciropparsi tutta la litania, alla faccia della scommessa fatta con se stesso, così la bloccò:
«Scusa cara, vado un attimo in studio. Devo spedire una mail urgente.»
«Va bene amore, la cena sarà pronta tra un quarto d'ora», gli rispose Marta sorridendo.
Senza mettersi le pantofole calde Aldo salì al piano di sopra e si lasciò sprofondare nella comoda poltrona. Avrebbe voluto addormentarsi lì, in quel momento, magari con in cuffia uno dei suoi dischi preferiti, per risvegliarsi direttamente la mattina dopo.
Rimase invece assorto per qualche minuto, sino a quando sentì, da sotto, la voce di lei che lo chiamava:
«Caro, puoi venire? La cena è in tavola.»
L'uomo malvolentieri si scosse dal torpore e scese di sotto. Nel frattempo erano arrivati Giovanni e Nicola, il primo dall'allenamento di basket, il secondo da casa di un amico dov'era andato a studiare. Per qualche minuto parlarono del più e del meno, sino a che Marta rimase con la forchetta sospesa a mezz'aria, cambiò espressione e, quasi gridando, esclamò:
«Ma caro, scusami, non ti ho neppure chiesto com'è andata al partito...» Gli occhi le si riempirono di lacrime e lui andò in crisi.
Era in quei momenti, in quei rari momenti, che capiva che non poteva fare a meno di Marta. Non sopportava la monotonia e la piattezza di quella donna, ma in fondo la amava ancora, o forse amava l'enormità dell'amore che lei, incondizionatamente, nutriva per lui.
Quella notte fecero l'amore. Lei sotto e lui sopra, in un amplesso ormai ripetitivo e standardizzato, con lui che le si svuotava dentro e lei che fingeva un orgasmo che non provava ormai più da chissà quanto tempo.
La giornata volò via, tra una telefonata ai capi del partito, una riunione con Alba, la responsabile dell'agenzia che avrebbe curato l'immagine della sua campagna elettorale, e un incontro con il responsabile sindacale della sua piccola industria.
Aldo, con Marta, era il proprietario dell'IMM, (Industria Micro Meccanica), azienda che aveva ereditato dal padre. Il futuro candidato sindaco aveva subito intuito che quell'attività poteva trasformarsi facilmente e decuplicare gli introiti, bastava cambiarne un po' la rotta. Così abbandonò la fabbricazione di minuteria per orologi, trasformando la produzione dell’azienda in micro componenti per computer.
La scelta fu vincente tanto che, in una decina di anni, l’organico della IMM era passato da sei operai agli attuali diciotto.
Aldo guardò l'orologio: le diciassette e quarantacinque. Lavorava ininterrottamente da nove ore e un quarto. Un movimento nello stomaco gli ricordò che non aveva neppure pranzato. Spense il computer, riordinò la scrivania, e si alzò avvertendo una fitta di dolore alla schiena. Per quel giorno poteva anche bastare. Spense le luci ma, mentre stava per attivare l'allarme, si ricordò di Nic, il figlio minore, che due giorni dopo avrebbe compiuto quindici anni. Con Marta avevano deciso di regalargli l'attrezzatura completa per quello che, in quel periodo, era il suo sport preferito: il pattinaggio inline, attività di cui, sino la settimana prima, Aldo ignorava persino l’esistenza. Non sapendo dove andare a comprare pattini, casco e protezioni per gomiti e ginocchia, l'uomo pensò di cercare un indirizzo in Internet, in modo da potersi poi recarsi in negozio a colpo sicuro. Il futuro candidato sindaco era un uomo concreto e pragmatico, e la cosa che più odiava era proprio la perdita inutile di tempo. Per questa ragione, invece di percorrere il lungo corridoio che conduceva al suo ufficio, si fermò in quello accanto all'ingresso, dove lavorava Nicla, la giovane attraente segretaria che si occupava del centralino e della ricezione dei clienti. Accese il pc, e nei pochi secondi necessari al suo avvio, si trovò a pensare alla ragazza, così giovane e bella, sempre vestita e truccata in modo impeccabile, e poi quelle gambe, così lunghe e affusolate...
Il tipico suono di Windows fece quasi sussultare Aldo, che scacciò il pensiero della segretaria. Sorridendo alla percezione di un principio di erezione l'uomo aprì Internet e digitò in Google la parola ‘casco da inline Ticino.’ Il sistema, mentre venivano digitate le lettere, forniva automaticamente le parole frutto di precedenti ricerche. Che sorpresa, quando dopo aver scritto le prime due lettere “ca...”, apparve la frase: “camping per nudisti.”
“Guarda guarda”, disse l'uomo tra sé e sé,
“Hai capito la giovane Nicla che gusti ha?”
Il pensiero della ragazza, stesa al sole completamente nuda, lo eccitò istantaneamente. Digitò il risultato della ricerca, e apparve un lungo elenco di campeggi, riservati agli amanti della tintarella integrale: Croazia, Grecia, Francia, persino Italia. C'erano strutture simili in ogni paese. Continuò a curiosare nelle pagine visitate dalla ragazza, scoprendo che esistevano blog sull'argomento, e federazioni che riunivano amanti di quella pratica. Un mondo che lui non conosceva. Si immaginò di andare a casa e proporre a Marta un weekend naturista Probabilmente la reazione di lei sarebbe stata uno svenimento immediato.
Alla fine, sorridendo a quel pensiero, tornò all'attrezzatura da inline
La Galassia dello sport si trovava a poche centinaia di metri dall'ufficio. La commessa che lo servì, neanche a farlo apposta, era una grande appassionata di pattini in linea, al punto che ogni giorno si recava al lavoro pattinando. “Un ottimo modo per tenersi in forma, risparmiando sui costi non proprio popolari dei mezzi pubblici.” Se fosse diventato sindaco, avrebbe dovuto occuparsi anche di quel problema, pensò.
La ragazza fu prodiga di suggerimenti e consigli, e alla fine l'uomo se ne andò dal negozio lasciandoci mezzo stipendio, e con un sacco contenente l'attrezzatura degna di un professionista, e non di un imberbe principiante quale, in realtà, era Nic.
Aldo guardò l'orologio: erano da poco passate le diciotto e trenta. Non poteva rientrare a quell'ora. Doveva assolutamente ritardare ancora un po’ l'ingresso nel suo... weekend time, così compose il numero di casa e lì per lì s’inventò un incontro imprevisto con Ettore Bonetti, l'addetto stampa del partito. Marta, come sempre, fu comprensiva e anche se la cena era già in avanzato stato di preparazione non si scompose, dicendo che l'avrebbe tenuta in caldo per quando fosse rientrato a casa.
Aldo riappese, sentendosi sporco. Nonostante tutto non amava raccontare bugie, non era nel suo carattere, ma l'idea di rinchiudersi nel grigio e ripetitivo torpore del fine settimana gli pesava come un macigno.
Per un attimo pensò di telefonare a Martina, la prostituta che frequentava regolarmente da un paio d’anni, ma poi ricacciò l'idea.
Camminando con una mano in tasca e nell’altra il pesante sacchetto contenente il regalo per Nic, si trovò davanti al Maischa Maref, un locale gestito da un intraprendente keniano che nel giro di un paio di anni aveva trasformato un vecchio bar, sede fissa dei pensionati della zona, in locale cult, rinomato in città per i suoi aperitivi e per gli stuzzichini che accompagnavano i vini di classe serviti alla clientela.
Marot, il keniota, aveva vissuto in sette o otto diversi stati africani, ne aveva ripreso alcune specialità gastronomiche, e le aveva adattate ai gusti occidentali, trasformando i banali accompagnamenti d'aperitivo, in un tripudio di gusti, a volte apparentemente contraddittori tra loro, ma sempre unici e originali.
Il salato si sposava così con il dolce, il piccante era smorzato dai frutti tropicali, l'umile pane arabo diventava un'esperienza unica, se abbinato a salse dagli ingredienti sconosciuti. Ormai in città non si diceva più: “Vado al Maischa Maref a farmi un apero”, ma: “Vado a cena al Maiscia Maref.”
Aldo non si trovava molto a suo agio nei locali alla moda ma adorava mangiare bene e, soprattutto, amava sperimentare nuovi gusti e sapori. In tal senso il locale di Marot era di gran lunga il migliore della città.
Entrò attraverso la porta girevole, e si trovò di colpo all'interno del Maischa Maref. Il bancone, essenziale, era totalmente in cristallo. Adesso che ci pensava non ricordava di essere entrato una sola volta nel locale senza vedere un inserviente intento a pulire il bancone.
Davanti al posto di lavoro di Marot si apriva un locale a volta dalla curiosa forma ovale. Al muro, in una contraddizione che però stregava il cliente, erano appese delle opere di giovani artisti sperimentali, accanto a quadri intarsiati nel legno, provenienti da ogni angolo d'Africa. Non c'erano sedie, ma solo alti tavolini in ferro battuto stile art decò... contraddizione nella contraddizione. Nella parte alta del perimetro del locale, erano installati decine di modernissimi faretti che riflettevano sul soffitto delle soffuse luci color pastello, che cambiavano tonalità ogni pochi minuti.
Aldo era stato in quel posto in decine di occasioni, ma ogni volta all'ingresso doveva superare un leggero capogiro, per poi essere risucchiato dalla magia del Maref.
Il candidato sindaco si avvicinò alla cassa per l'ordinazione. Gli si avvicinò una sorridente biondina avvolta in un sobrio tailleur verde, la divisa d'ordinanza del locale:
«Un Morellino del 2004», disse Aldo aggiungendo,
«E qualcosa da mangiucchiare.»
«Cosa preferisce?», gli chiese la cameriera,
«Faccia lei», chiuse seccamente la conversazione Aldo, non certo al top dell'umore.
Istantaneamente si sentì arrabbiato con se stesso: era il candidato sindaco! Doveva essere sempre cortese, gentile e sorridente, in qualsiasi condizione, sempre e comunque. Quel lato del suo carattere andava modificato, e in fretta.
Nel frattempo sopraggiunse la biondina, con un elegante calice di vino e un vassoietto carico di salsine colorate, pane arabo e altre prelibatezze non meglio identificate. La ragazza posò tutto sul tavolino più vicino e mnemonicamente ripeté, per l'ennesima volta quella sera, l'elenco dei manicaretti.
«Cosa sono queste? Non ho capito» disse, questa volta gentilmente Aldo, indicando un piattino con un intingolo arancione.
«Sono cozze marinate con arance verdi del Madagascar», spiegò la giovane cameriera.
L'uomo le sorrise ancora, porgendole una banconota da venti franchi e la ringraziò per il servizio.
“Da dove cominciare?” si chiese mentalmente, “da un sorso di vino, ovviamente.”
Aldo ripeté i rituali gesti che compiva ogni volta quasi religiosamente: alzò il calice alla luce e ammirò il colore ambrato del contenuto, quindi abbassandolo fece correre il vino lungo il bordo del bicchiere per esaltarne l'ossigenazione, e infine ne sorbì un piccolo sorso. Lo tenne per un attimo in bocca e poi lo inghiottì. Perfetto, come sempre. “E ora assaggiamo queste famose cozze alle arance bla bla”. Con un cucchiaino si portò alla bocca una cozza con una buona dose di sughetto. Profumava di spezie: forse citronella, sicuramente chiodi di garofano. Il gusto era sorprendente. La cozza si sposava con il succo acidulo dell'arancia e gli aromi delle spezie, creando un sapore assolutamente unico. Quella cosa non assomigliava a nulla che avesse mai mangiato. Istintivamente si girò verso il bancone e strizzò l'occhio a Marot, indaffarato come sempre nella creazione di qualche specialità dagli accostamenti azzardati.
Il candidato sindaco ordinò ancora due Morellino e provò la dozzina di stuzzichini giornalieri poi, con la testa che gli girava leggermente, decise di concedersi una sigaretta. Lo faceva raramente, non più di tre, quattro volte al giorno, ci teneva alla sua salute.
Attraversò la vasta sala ovoidale e, attraverso una piccola porta di vetro, entrò nella sala fumatori, uno stanzino di quattro metri quadrati, anch'esso arredato con qualche alto tavolino, mentre alle pareti erano esposti i quadri Naif di un certo De Carlo, secondo il proprietario del Maischa Maref, uno che: ‘Avrebbe lasciato un'impronta.’
La sala fumatori era deserta, fatta eccezione di una donna che sembrava assorta nei suoi pensieri, tanto che non rispose neppur al suo cenno di saluto.
Aldo estrasse una Winston blu dall'elegante portasigarette in pelle, dono di compleanno di Marta, qualche anno prima. La parcheggiò fra le labbra e cercò l'accendino nelle tasche del cappotto.
“Niente da fare maledizione”, disse tra se e se, “dimenticato in ufficio.”
Allora si avvicinò alla donna e, sfoderando il suo miglior sorriso le chiese gentilmente d'accendere.
La donna parve ridestarsi dalle sue riflessioni. Girandosi verso l'uomo, gli rispose:
«Oh, sì certo», ed estrasse dalla borsetta un elegante Zippo da donna.
«Prego...»
Aldo si sentì in dovere di dire qualcosa in più di un semplice grazie, ma fu sorpreso lui stesso dalle sue parole:
«Oh, gentilissima. Comunque guardi che non era un modo banale per abbordarla. Ho davvero dimenticato l'accendino in ufficio.»
La donna rise divertita, mostrando una dentatura assolutamente perfetta:
«Oh Dio, scapperei a gambe levate davanti a qualsiasi uomo che cercasse di abbordarmi con la scusa di accendere, fosse anche George»,
«George?», disse di rimando Aldo,
«Si, George. George Cloney.» Entrambi si misero a ridere divertiti.
“Oh, mi scusi, non mi sono neppure presentato», riprese l'uomo,
«Sono Aldo Benotti, tanto piacere.»
«Ed io sono Eva, Eva Ramelli», disse la donna, rispondendo alla sua decisa stretta di mano.
«Anche lei al Maischa Maref? È la prima volta?», disse l'uomo.
«Si, non ero mai entrata in questo bar. Avevo un appuntamento con una collega di lavoro, ma mi ha appena chiamata dicendo che ha un problema con il figlio, e così mi sono fatta un aperitivo da sola, prima di rientrare a casa.»
La voce era bella, calda, profonda, a tratti quasi mascolina, e tradiva un'origine forse francese.
«E lei è un habitué di questo strano posto?», continuò Eva.
«Oh sì», rispose Aldo con una punta d'orgoglio,
“Ci vengo almeno una volta alla settimana, da quando Marot ha aperto il Maischa, circa tre anni fa.”
«E chi è Marot?» Chiese lei incuriosita.
«Lo vede quel nero al banco bar? Quello è Marot» rispose lui.
«È arrivato qui dal Kenia, come profugo, attorno al duemila, e tre anni fa, trovando i soldi non si sa bene dove, ha avuto questa illuminazione...»
«Mi sembra che ne parli con molta ammirazione”, disse Eva, scacciando con la mano dal viso una ciocca di capelli nero corvino.
Aveva uno sguardo bellissimo. Per un istante lei lo guardò dritto negli occhi, e lui si perse in due pupille marroni, di tonalità diverse, molto dissimili tra loro.
«Proprio come quei cani di razza, i Collie, credo, pensò l'uomo.»
«Oh sì», rispose ridestandosi da quella riflessione.
«Ammiro incondizionatamente le persone che, con la fantasia, l'impegno e un pizzico di follia, riescono a costruire qualcosa partendo dal nulla, e penso che in tal senso Marot sia stato geniale, oltre che un po’ folle...»
«E lei di cosa si occupa?», lo interruppe la donna.
«Ho una ditta di microcomponenti per computer e faccio un po’ di politica.»
«Politica?», ripeté la donna, attendendosi una chiarificazione.
«Sì, sono uno dei candidati sindaco alle elezioni del prossimo marzo.»
«Allora adesso è tutto chiaro: lei finge di dimenticare l'accendino per... abbordare, potenziali elettori...» rise lei.
«Pure ironica la morettina», pensò Aldo, unendosi alla sua risata argentina.
Il candidato sindaco guardò l'orologio, uno Zenith d'oro, regalo di Marta per il loro ultimo anniversario di matrimonio: le diciannove e quarantacinque, doveva andare.
Porse la mano a Eva dicendole: «È stato davvero un piacere. Spero di rivederla e... voti per me.»
Risero di nuovo, quindi Aldo si allontanò, mentre la donna veniva risucchiata dai suoi problemi.
Eva seguì con la coda dell'occhio Aldo che usciva dal locale, e si rituffò nei propri pensieri.
Da qualche mese si era trasferita in città, dopo aver trascorso gli ultimi tre anni a Borges, una cittadina francese a ridosso del confine svizzero. Dalla provincia di Bergamo, dov'era nata e cresciuta, si era trasferita in Francia per amore. Il marito Pascal era caporedattore in un giornale locale. Per lei, disoccupata da qualche mese, non fu un sacrificio abbandonare la casa dei genitori, dove aveva vissuto per più di trent'anni.
Affittarono una casetta con un piccolo giardino a pochi chilometri dalla città. Per un po' fu l'idillio, il classico amore da libro. Pascal, con il lavoro che faceva, trascorreva a casa un sacco di tempo. Erano sempre assieme, di giorno e di notte, ma ben presto cominciarono i problemi. Piano piano gli extra di Pascal, che era anche addetto stampa per una squadra di basket e per l’Ente Turistico, diminuirono, sino a cessare del tutto. Eva, con in tasca un diploma di commercio, cominciò a cercare un'occupazione, anche part time, ma il suo francese non perfetto si dimostrò un grosso handicap.
Il mondo di “due cuori e una capanna” si scontrò con quello reale. Il nervosismo cominciò, in modo strisciante, a essere il costante terzo incomodo tra di loro, con il risultato di generare lunghe, eterne, snervanti discussioni su tutto.
E poi c'era il problema bambini. La donna desiderava dei figli. Li aveva sempre sognati, forse anche perché proveniva da una famiglia numerosa, salvo scoprire, dopo un paio d'anni d’infruttuosi tentativi, che il marito era sterile, probabilmente a causa di un forte colpo nei testicoli, ricordo di un passato giovanile da semiprofessionista in una squadra di rugby.
Nervosismo si accumulò su nervosismo. L'idillio dei primi mesi fu un ricordo. I due cominciarono a litigare, sempre più spesso, sino a che una sera, al termine di una discussione furiosa, Pascal aveva colpito Eva con uno schiaffo. Fu la goccia che fece traboccare il vaso. A nulla servirono le scuse e i pianti di Pascal. Eva chiese il divorzio e se ne tornò a casa dei genitori: sola, senza marito, figli, né lavoro.
La congiuntura economica e la crisi strisciante si facevano però sentire anche nella ricca provincia bergamasca: nessuno aveva bisogno di una segretaria di quasi trentacinque anni.
Regolarmente, nei vari colloqui di lavoro, veniva scartata a favore di donne più giovani di lei. Eva non ce la faceva più a dipendere dalla misera pensione di Ada e Remo, i vecchi genitori, e da qualche lavoretto saltuario. Fortunatamente il padre aveva lavorato come camionista presso un'azienda di Dalmine, gemellata con una consorella in Svizzera. Il proprietario, il signor Schinbauer aveva un debole per Remo, così quando seppe dei problemi della figlia, non ebbe difficoltà a trovarle un impiego di segretaria presso una fiduciaria il cui proprietario era un caro amico.
Detto fatto: Eva fece nuovamente le valigie e si trasferì in Svizzera, in uno spazioso monolocale, anch'esso trovatogli dal signor Schinbauer, a poche centinaia di metri dalla Trac & Co, la fiduciaria che l’aveva assunta.
Le prime settimane di lavoro non furono certo facili. Per Eva era tutto nuovo: la città in cui viveva, i ritmi di lavoro, le colleghe, ma piano piano, anche grazie al suo carattere sempre dolce e disponibile e alla sua naturale propensione al sorriso, prese confidenza con la nuova realtà, tanto che oggi poteva ritenersi quasi felice.
La cicatrice del fallito matrimonio si stava piano piano riassorbendo e, lentamente, sentiva nuovamente il sangue fluirle nelle vene. Stava tornando l'antica energia. Aveva voglia di vivere, di divertirsi, aveva voglia di sesso. Da quanto tempo non provava quella sensazione. La mente, per un istante andò ad Aldo. Eva sorrise, mentre ordinava alla cameriera un altro Rioja, un rosso spagnolo con uve Tempranillo che lei adorava.
Marta alzò il viso dai fornelli per controllare l'ora: le diciannove e trenta, e il marito non era ancora rientrato. Lo pensò impegnato in qualche noiosa riunione del consiglio d'amministrazione della IMM, o in una discussione con Alba, per la pianificazione dell'ormai imminente campagna elettorale.
Sorrise, immaginando il suo Aldo, con un bellissimo gessato grigio, mentre salutava la folla che festeggiava la sua lezione. Già, tra qualche mese sarebbe stata la moglie del sindaco, ne era sicura.
A dire il vero un po' la cosa le pesava, perché con l'elezione del marito anche i suoi impegni sarebbero di conseguenza aumentati. Pensava alle cene ufficiali, ai ricevimenti e a tutte le cerimonie cui avrebbe dovuto obbligatoriamente partecipare. Non era fatta per questo genere di cose. Veniva da una famiglia semplice. Mamma Lina e papà Guido erano operai. Vivevano da sempre in un appartamentino nel centro del paese, facendo una vita semplice e regolare. Lei era venuta su così: “semplice”, anzi, “troppo semplice”, come diceva il marito. Non poteva farci nulla, era più forte di lei: non le piaceva apparire, e di conseguenza non amava perdere tempo inutilmente dalla parrucchiera o dall’estetista. Non capiva perché avrebbe dovuto spendere un patrimonio in scarpe e vestiti, quando c'erano modi più intelligenti per farlo.
Quell'argomento tornava sempre più spesso nelle discussioni con Aldo. Lui la accusava di poca femminilità e di piattezza. Lei gli rispondeva che i veri valori di una persona erano quelli interiori, non certo l'esteriorità.
Marta amava il marito, lo amava con tutta se stessa. Aldo era stato il primo e l'unico uomo con cui avesse fatto l'amore. Si erano incontrati per caso una sera al cinema. Per l'occasione proiettavano un film su Freddy Mercury, morto di aids poche settimane prima. Fu proprio il leader dei Queen a far scoppiare la scintilla, partendo da una passione condivisa: l'amore per il gruppo di Bohemiam Rapsody.
Com'era bello parlare con quell'uomo, così colto, elegante e sempre a modo.
Prima di lui, Marta era uscita con alcuni uomini, senza mai andar oltre qualche bacio. Dopo pochi appuntamenti lei si ritirava come se, improvvisamente, non provasse più interesse per il pretendente di turno. Con il futuro marito era tutto diverso. Lui la faceva ridere, la incantava con la sua cultura, con la capacità di inserirsi in ogni discussione, in modo sempre appropriato. E poi era così galante. Mai nessuno le aveva aperto la porta dell'auto, o aiutata a sedere a tavola. Nessuno le aveva mai regalato dei fiori, come invece aveva fatto Aldo al loro primo appuntamento, presentandosi con una lunghissima rosa rossa.
Avevano fatto l'amore a casa di lui, un sabato pomeriggio. L’uomo aveva avuto un gran numero di esperienze, mentre per lei era la prima volta. Anche in quell'occasione Aldo si dimostrò all'altezza della situazione: fu attento, dolce, delicato, e lei quasi non provò dolore quando la penetrò. Era bello fare l'amore con quell’uomo. I primi tempi lo facevano a ogni occasione poi, piano piano la frequenza diminuì, e con essa anche il piacere. Più o meno il cambiamento avvenne dopo la nascita del primo figlio, Giovanni. L'orgasmo divenne un episodio sempre più raro, ma Marta non se ne crucciava. Aveva due figli meravigliosi e un marito fantastico. Del sesso si poteva benissimo fare a meno, tanto più che anche i bollenti spiriti di Aldo, con il tempo si erano molto ridimensionati.
“Il sesso è cosa da fidanzati o coppiette ai primi anni di matrimonio”, oggi Marta sentiva di amare Aldo in modo diverso, meno passionale e fisico ma, sicuramente, più profondo e viscerale. Non poteva neppure immaginare una vita senza di lui.
Il rumore familiare di un'auto la scosse dalle sue riflessioni. Era la BMW del marito. Istintivamente sorrise, alzando la temperatura del forno in cui aveva lasciato in caldo l'arrosto.
Eva lasciò il Maischa Maref dopo tre calici di Raioja. Si sentiva particolarmente su di giri, tanto che decise tornare a casa a piedi. Possedeva una Mini ma, a volte, l'auto restava in garage anche per settimane. Il bus fermava esattamente davanti al suo palazzo e a non più di cinquanta metri dalla sede della Trac & Co. A cosa le poteva servire l'automobile, se non per andare a trovare i genitori una volta al mese?
Erano i primi giorni di ottobre, ma faceva già molto freddo, tanto che le previsioni parlavano di temperature che, nei giorni successivi, si sarebbero avvicinate allo zero gradi. Era proprio vero: ormai non esistevano più le mezze stagioni.
La donna si sistemò il foulard, alzò il collo della giacca e s’incamminò per Corso Zurigo che, come una lama, tagliava in due la città. Erano quasi le nove. I negozi ormai chiusi. Poca la gente per strada. Eva si lasciò avvolgere dalle luci e dalle atmosfere di quella città che cominciava ad amare.
Passò davanti a Randy, il negozio di scarpe più bello del pianeta e si scoprì a osservare un paio di decolté, con la stessa bramosia con cui un bimbo avrebbe ammirato un fortino con i soldatini di piombo e gli indiani con le piume colorate, pronti alla battaglia.
Erano mesi che sognava quelle scarpe e prima o poi le avrebbe comprate, anche se le sarebbero costate mezzo stipendio.
Proseguì passando di fronte alla fermata del bus e attraversò la strada portandosi sul lato destro.
Passandoci davanti non poté non dare un'occhiata a Fiorimania. Adorava i fiori, le piante e le composizioni verdi, ma ciò che più le piaceva di quel negozio era la sempre ricca esposizione di bonsai. Ogni volta che ci passava davanti c'era qualcosa di nuovo e, anche quella volta, non rimase delusa: un bassissimo vaso, come nella migliore tradizione di quell'arte millenaria, che ospitava cinque abeti bianchi in miniatura. Ne rimase affascinata. Un po' s’intendeva di bonsai. Il padre ne era appassionato. Sin da bambina lo ricordava nella piccola serra, intento ad annaffiare le sue piccole creature, oppure mentre avvolgeva il classico filo di rame attorno a un rametto per dargli la forma desiderata.
Da ragazzina a Eva quella sembrava una pratica contro natura, tanto che un giorno disse al padre:
«Ma papà quelle piantine non hanno male con quei fili che gli leghi attorno ai rami, e poi come fanno a vivere con così poca terra?»
Papà Remo sorrise, con quell'aria serena che aveva la capacità di rassicurarla in ogni occasione e disse: «Cara, ti ricordi quando siamo andati in montagna la settimana scorsa? Ti ricordi quelle piante nate quasi sulla roccia, abbarbicate alla montagna per non farsi portare via dal vento. Non vivono forse anche loro con poca terra? E poi pensa che una pianta trasformata in bonsai, normalmente vive di più delle sue sorelle in natura. Non penso che questo voglia dire soffrire.»
Da quel giorno Eva non avrebbe avuto più dubbi sull'etica di quell'antica arte orientale.
Guardò un bellissimo ciliegio quasi centenario esposto da Fiorimania, e pensò che le sarebbe piaciuto possederne uno così. Un bonsai è come un figlio anzi, per certi versi addirittura di più, perché devi accudirlo ogni giorno, per tutta la vita, infatti la dimenticanza anche di una sola innaffiatura può provocarne la morte, e poi un figlio prima o poi raggiunge l'autonomia, mentre un bonsai dipende dal suo proprietario per tutta la vita. Il padre le raccontava che, in oriente, i bonsai sono considerati come dei tesori di famiglia, tanto da essere passati dal padre al figlio perché ne continui la cura. Che cosa affascinante...
A fatica la donna staccò gli occhi dal ciliegio e dal boschetto di abeti in miniatura, e proseguì il cammino, arrivando a ridosso della piccola chiesa di San Sisto, eretta in onore del papa che, si narra, avesse anticamente visitato la città.
Dalla porta laterale uscì un uomo, probabilmente un dipendente di qualche banca, elegantemente vestito e con una ventiquattr'ore tra le mani, il cranio completamente pelato. Eva non poté non pensare ad Aldo.
Dalla chiesa di San Sisto la donna proseguì per via Reni, quindi attraversò la passerella pedonale che attraversava il fiume. Eva rabbrividì per un improvviso colpo di vento che le scompiglio i lunghi capelli. Poco male era quasi a casa. Aprì il portone della palazzina in cui abitava e si avviò verso l’ascensore. Prima di entrarvi indugiò un attimo: non aveva assolutamente sonno. Si sentiva carica di energia e di voglia di vivere. Avrebbe desiderato rimaner fuori, ma per andare dove? E con chi poi?
Malvolentieri si avviò verso la porta di casa, mise la chiave nella toppa e la girò, spinse la maniglia ed entrò. L’avvolse l'essenza d'ambra che tanto amava, diffusa a scadenza regolare, da un vaporizzatore elettrico temporizzato. Si tolse le scarpe e accese le luci.
L'appartamento di Eva era piccolo ma accogliente. Dalla piccola entrata si poteva accedere direttamente a tutti i locali: la vasta sala, con annessa minuscola cucina, il bagno e la piccola stanza da letto.
La donna aveva arredato l'appartamento con uno stile tutto suo. I mobili erano stati raccattati un po' qua e un po' là. Erano di legno scuro, in netto contrasto con il resto dell'arredamento, tutto a tinte pastello, dal tenue rosa delle pareti e delle luci soffuse, al pallido color crema del grande divano letto.
Ai muri tre quadri enigmatici: un punto esclamativo, un punto di domanda e una @, tutti vergati con il pennello e l'inchiostro di china nera, secondo la millenaria tradizione giapponese.
La camera conteneva unicamente un letto, essenziale, e un vasto armadio, entrambi di legno scuro. Sopra il letto un grande ritratto a china, che la ritraeva dieci anni prima, con i capelli a caschetto, e una posa sexy evidenziata dalla curva in avanti del collo e da una nuvola di fumo che usciva dalla sigaretta che teneva tra le labbra. Com'era bella…
Si, Eva si era sempre ritenuta una bella donna, non c'era nulla di male.
Andò in bagno e si spogliò in fretta. Aveva bisogno di una doccia come piaceva a lei: lunga, lunghissima e, soprattutto calda, al limite dell'ustione.
Se l'avesse saputo l'amministratore, le avrebbe sicuramente aumentato le spese per tutto quello spreco di acqua calda. Del resto la doccia bollente, era per lei il miglior calmante e il più formidabile sonnifero del mondo.
Quarantacinque minuti dopo la donna uscì dal bagno, con la visibilità ridotta ormai a zero per il fitto vapore che si era diffuso nel locale. Si mise sul divano e iniziò quello che considerava come il secondo miglior sonnifero al mondo: lo zapping. Dieci minuti dopo Eva dormiva profondamente in posizione fetale con il telecomando ancora in mano.
Si sveglio di soprassalto qualche ora dopo per lo sbattere di una persiana. Uffa, si era addormentata ancora sul divano, come sempre del resto. Tutta anchilosata si trascinò in camera, si tolse il pigiama e, completamente nuda si addormentò sotto un doppio piumone. Quella notte sognò Aldo: fu un sogno assurdo, come in fondo lo sono la maggioranza dei sogni. Lui le aveva chiesto di accompagnarlo a Bologna, dove aveva una riunione di lavoro. L'auto su cui viaggiavano percorreva una strana autostrada a quattro corsie sovrapposte. Ogni poche centinaia di metri c’era un autogrill, e lei ogni volta che ne vedeva uno chiedeva regolarmente ad Aldo di fermarsi: le scappava la pipì, aveva voglia di un caffè, doveva sgranchirsi un po' le gambe, le scappava la pipì, aveva fame, aveva sete, le scappava la pipì, voleva un gelato, una coca, le scappava la pipì, voleva un biglietto della lotteria...
Nei rari momenti in cui l'auto viaggiava, Eva chiedeva all'uomo di rallentare, e dietro gli automobilisti esasperati dalla loro lentezza suonavano il clacson, forte, sempre più forte...
“Ma quali clacson: quello era il campanello di casa.”
Eva si svegliò di soprassalto, con la vescica che le scoppiava. Indossò in fretta una camicia da notte e corse ad aprire al postino che, impazientito, se ne stava per andare.
Era un documento che aveva chiesto in comune. Con gli orari di lavoro non ce la faceva ad andare allo sportello dell'anagrafe e la signorina, al telefono era stata così gentile, proponendole di spedirlo a casa.
Buttò la busta sul tavolo e si spogliò nuovamente. Aveva bisogno di una doccia: percepiva ancora la sensazione di quel sogno, doveva scacciare quella nebbia dal cervello. Mentre preparava la temperatura dell'acqua, giusto mezzo grado sotto il limite umano massimo di sopportazione, si trovò a ridere da sola pensando all'assurdità di quell'esperienza onirica. Quel viaggio, fatto tutto di soste, come se lei desiderasse che non avesse mai fine.
Il getto ustionante dell'acqua scacciò la nebbia, il sogno... le sue fantasie, e la riportò nel mondo concreto di tutti i sabati: estetista, parrucchiera, shopping, aperitivo.“Maischa Maref?” pensò Eva,
“Uhm, potrebbe proprio essere una buona idea”, sorrise tra sé, in modo esageratamente malizioso.
Si asciugò, si truccò e passò alla fase più difficile: la scelta del vestito. Provò un attillato paio di jeans, ma si vide grassa, una maglia grigia che sino a poche settimane prima adorava, ma sembrava le facesse scomparire il già piccolo seno. Alla fine decise per una gonna di pelle nera e un maglione dal collo triplo, color panna. Ai piedi mise un paio di stivali neri che le arrivavano sino alle ginocchia. Si guardò allo specchio: si, era ancora una gran bella donna. Prese dal tavolino accanto all'ingresso la borsetta e controllò il contenuto. C'era tutto: sigarette, accendino, portafoglio, occhiali da sole, fazzoletti di carta e assorbente d'emergenza. Poteva uscire, e andare incontro alla sua giornata.
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News » Il racconto della Domenica | Sunday 11 September 2016
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