IL MAESTRO DELLA ZISA, RITRATTO DI UN "CITTADINO IMPEGNATO"
13 January 2017
di Adriana Saja
A 90 anni Vito ti accoglie col passo fermo, lo sguardo vigile, la sua solita disponibilità all’ascolto ed al confronto. Ama discutere di storia, arte e di politica soprattutto. Ma con lui si può spaziare e parlare di qualsiasi cosa. Coglie sempre un punto di vista originale, capacità propria di chi ha un grande spessore umano e poi sì certo, anche culturale. Sono, infatti, la sua grande umanità e l’acuta, profonda comprensione del mondo e delle cose, della vita tutta, le caratteristiche della sua personalità subito evidenti. Sì, un maestro, Vito, prima di tutto. E da buon maestro passa ancora adesso le sue giornate a scrivere, un po’ meno a leggere, a progettare sempre. Numerose le sue lettere pubblicate sui giornali, in particolare la Repubblica, in cantiere un libro sulla sua esperienza di preside a Monte lepre e l’attesa edizione della sua autobiografia, come “diario essenziale” di una vita spesa per una causa. L’impegno civile e politico per trasformare le condizioni di vita degli umili, per migliorare la società nel senso di maggiori equità, giustizia e benessere. Ma chi è da vicino Vito Mercadante? I suoi natali nel 1920 a Palermo, da una famiglia benestante di origini calabresi, trasferitesi prima a Palermo a seguito dei Florio, e poi a Prizzi. Da qui un ramo aveva nuovamente raggiunto il capoluogo siciliano. La sua infanzia e l’adolescenza furono caratterizzate dalla ricerca di libertà, dal forte senso dell’avventura, dalla ribellione contro il conformismo del suo ambiente sociale e l’autoritarismo paterno. Quella piccola borghesia palermitana, ottusa e incapace di guardare al di là del proprio naso e del proprio misero interesse, goffa e ignorante. Il padre, funzionario statale, impiegato alla Camera di Commercio, era anche avvocato, commerciante all’ingrosso di medicinali, informatore economico, professore di diritto, un “elefante” insomma, secondo la definizione che di uomini simili, capaci di mille fatiche pur di assolvere i propri obblighi, diede Vittorini. Un uomo di grande levatura morale, ma molto severo e, da ex sottoufficiale nella prima guerra, abituato al comando militare. Da ragazzo Vito scappava di casa e nella campagna proprio dietro il corso Olivuzza, dove abitava, giocava alla guerra a colpi di pietre con i ragazzi di strada, figli di quel popolo che ha amato sempre, come il suo famoso lontano, omonimo parente, chiamato “zio” in segno di rispetto, il poeta di “Lu sissanta” e “Focu di Moncibeddu”, detto “’u netta tubi” per via della sua lunga barba scura. Scrittore siciliano, indubbiamente i suoi versi “d’amore e di dolore”, che rappresentano “un microcosmo di contadini laboriosi che aspiravano alla terra e alla libertà”, sono fra i più belli della nostra letteratura dialettale. Di professione ferroviere e socialista soreliano, in un angolo dei Quattro Canti di Palermo, quelli vecchi, teneva corsi politici e di sindacalismo. La formazione di “uomo democratico”, come Vito ama definirsi, nasce dunque proprio a contatto col popolo palermitano, vivace e dinamico, mafioso ed arrogante, e dall’esempio di rivoluzionario di questo importante personaggio della sua famiglia, che maggiormente lo ha influenzato, rappresentando il modello ideale da seguire. Studia al liceo Garibaldi, nella vecchia sede di via Giovanni di Giovanni, da cui fu espulso perché autore di una “carnevalata”: ribelle sempre Vito e la sua vita molto “agitata” e zingaresca, mai legata ad un “padrone”. Si iscrisse all’università nella facoltà di Lettere, perché voleva fare l’educatore, quando il padre, per punizione fascista, fu esiliato a Firenze. Qui Vito continua gli studi umanistici, che poi però, dopo una breve interruzione per il servizio militare, conclude di nuovo a Palermo, dove la famiglia era potuta rientrare e dove si laureò nel ’46. Dei suoi studi Vito ricorda l’ottusità di molti professori, una scuola noiosa, retorica e mnemonica, a parte qualche rara eccezione, lontana dalla realtà e dalle esigenze di comprensione della vita dei giovani, ma anche l’amore per la storia e la letteratura italiana, in particolare la critica del De Sanctis, e ancora quando andava a comprare, sottocosto e coi soldi rubati al portamonete paterno, i libri usati ai “muri di San Giuseppe”, quelli della chiesa antistante palazzo Pretoria, dove, a quel tempo, i rivenditori mettevano in bella mostra i testi di seconda mano. Sono questi gli anni della sua formazione politica alla scuola di Mario Mineo, marxista studioso di economia politica, fondatore e direttore politico della rivista “Praxis” negli anni ’70, di certo la figura più rappresentativa dell’estrema sinistra palermitana di quegli anni. Con lui, Nicola Cipolla, Beppe Fazio, Enzo Sellerio, Nando Russo ed altri, Vito inizia la sua militanza politica, diffondendo lettere e volantini di propaganda antifascista, messi di nascosto sotto gli usci delle case. A Mondello, nel villino del padre, si recava a piedi coi suoi compagni per ascoltare Radio Londra ed i commenti del colonnello Stevens, finché fu costretto ad arruolarsi, sebbene avesse fatto di tutto per evitarlo, senza però riuscirvi. Destinazione: scuola allievi sottufficiali IX btg. Ascoli Piceno. Mario Mineo fu più fortunato o forse più coraggioso: andò a finire in un manicomio, dove imparò a convivere coi pazzi. Si ritrovarono dopo circa quattro anni di nuovo insieme, a Palermo, per continuare le loro battaglie per la democrazia. Alla caduta del fascismo Vito riuscì ad evitare il campo di concentramento, perché era uscito dall’esercito in seguito ad una “cercata” frattura al piede e conseguente ricovero ospedaliero. Con suo fratello Gigi (partigiano già a 16 anni sulle Alpi Apuane nel ’43) si occupava della distribuzione della stampa clandestina e della ricerca di armi, rapinando le armerie. Nel ’44 entra nelle SAP (Squadre Armate Partigiane) del Partito d’Azione, ed una volta ritornato a Palermo fa parte dell’ANPI, associazione diretta da Pompeo Colajanni che lo incaricò di organizzare una sezione del PCI a Partanna Mondello, nel paese della feroce e sanguinaria mafia dei giardini. Grande oratore Pompeo e ardente comunista, a cui mancava solo la stoffa dell’organizzatore scientifico. Era insomma, come lo definisce Vito, un Garibaldino. I socialisti, con i quali ingenuamente aveva pensato di dividere i locali della sezione, gli rubavano gli iscritti e l’unica cosa che interessava loro era quella di trovare voti per i candidati che, a date fisse, lo andavano a trovare. Inizia la sua carriera di insegnante di lettere a San Cataldo, nel nisseno, in una scuola tecnica agraria. Il provveditore Pignato, una delle persone più colte della Sicilia di quel tempo, grande umanista e dirigente durante il fascismo della rivista “ Il Ciclope “, che era stata apprezzata anche da Gramsci al confino, lo aveva messo in guardia: “ Stia attento, è un paese arcicattolico e le donne hanno un’abilità straordinaria nell’accalappiare gli uomini”. Per un periodo della sua vita visse anche a Crotone, come insegnante di educazione fisica, dove inizia la militanza nel PCI di Togliatti, di cui fu membro nell’esecutivo della federazione crotonese. Qui “impara” le lotte operaie, nelle fabbriche della Pertusola e Montecatini, e poi, dopo la strage Melissa del ‘49, le lotte contadine contro l’ente Sila per la riforma agraria. Sua l’idea, che poi la direzione nazionale fece propria con le “scuole di partito”, di istituire corsi di formazione marxista. Gli fu proposto di lasciare la scuola per diventare funzionario di partito con lo stesso stipendio, ma da “zingaro sociale e culturale” Vito non accettò. Nel ’52 si trasferisce a Caltanissetta per insegnare storia della letteratura italiana e latina al liceo scientifico. Furono quattro anni di studi intensi: tra le sue letture preferite la rivista Belfagor ed i libri della casa editrice Marzorati, particolarmente utili per la formazione ai concorsi. E difatti Vito ne vince ben 5, fra cui uno per “merito distinto” e poi quello di Preside, nel ’57. La prima sede Montelepre. Paese difficile, dove la mafia è forte, dove mai è esistito un movimento contadino e lo stato è debole. E lui era lo stato. Dunque inevitabile lo scontro. Ma Vito non è uomo da gettare la spugna. Inizia a studiare a fondo la realtà di quella gente e la mafia. Accompagna, da vero intellettuale comunista, la pratica della lotta agli studi teorici. Legge i classici sulla storia della criminalità mafiosa. Inizia la sua formazione di storico della Sicilia e della mafia, per cui poi, negli anni ’80, il presidente dell’ARS onorevole Michelangelo Russo, poco dopo l’omicidio di Piersanti Mattarella, lo invita a scrivere una relazione per un testo di legge che istituzionalizzi nella scuola la lotta contro la mafiosità. Nasce così la legge regionale 51 del 4 giugno 1980 "Provvedimenti a favore delle scuole siciliane per contribuire allo sviluppo di una coscienza civile contro la criminalità mafiosa", che garantisce finanziamenti alle scuole pubbliche regionali che si occupino di cultura antimafia. L’associazione “Scuola e cultura antimafia” fu da lui fondata insieme a Claudio Paterna, Anna Maria Ajovalasit, Roberto Tripodi, proprio per dare attuazione a questa legge. Ben 300 scuole si attivarono, sin dal primo anno della sua entrata in vigore, nella redazione di progetti di promozione di una cultura antimafia e organizzando lotte e manifestazioni contro la criminalità mafiosa. E’ certamente l’inizio di un movimento sociale e culturale contro la mafia che porterà alla costituzione di quel Coordinamento Antimafia attivo a Palermo negli anni di piombo compresi fra il 1986 e il 1990, quando il fenomeno mafioso era considerato dalla gente del Nord e del Centro dell’Italia come un problema che riguardasse soltanto la Sicilia, mentre al contrario investiva tutta l’Italia, soprattutto per le ricadute che il compromesso fra mafia e potere aveva sulla politica nazionale. La famosa querelle tra Sciascia, definito da Vito un “buon affabulatore”, e l’Associazione Antimafia si colora di un altro episodio che ne suscitò l’antipatia e l’accusa di malizia: la Sicilia in quanto isola poteva soltanto o conquistare il continente o essere conquistata dai popoli dominatori, come poi è sempre stato in quanto terra strategica per il controllo del passaggio tra il Mediterraneo occidentale e quello orientale. Idea già espressa nel libro la “Terra del Caos”, di cui Sciascia si appropriò e spacciò per sua in un’intervista realizzata dalla giornalista francese Marcelle Padovani. Nel ’75 il “maestro della Zisa”, come amabilmente lo definì il giornale L’Ora di Palermo, si trasferisce a Palermo, alla scuola media Antonio Ugo. Ciò che caratterizza la sua professionalità di dirigente scolastico, e che ne determina l’innovazione, sono l’interesse nei confronti del territorio ed il costante rapporto con l’ambiente sociale di provenienza degli alunni. Ma non solo. La lotta alla sottocultura mafiosa e la concezione di una cultura che sia innanzitutto “chiave di lettura della realtà”, mai separata dall’esperienza, completano le basi fondanti della formazione alla scuola di Vito. L’alunno impregnato di mafiosità non può essere un cittadino. O si fa antimafia a scuola o non si fa educazione. “Coloro che snobbano ciò, non sono professori”, mi racconta Vito con quell’animosità misurata, che è sì calorosa, ma non trascende né trasborda mai. Palermo è il capoluogo della mafia. I palermitani impregnati di sottocultura mafiosa, specialmente nelle periferie. Ma come si fa antimafia a scuola? Per prima cosa bisogna conoscere i “disvalori” della sottocultura mafiosa, che devono essere aggrediti per rimuoverli. Il clientelismo, l’omertà, il sentimento della cosca, “lo stare uniti come le foglie di un carciofo”. Ma non basta. E’ necessario studiare il fenomeno mafioso dalle sue origini, per far comprendere che la mafia, lungi dall’essere forza positiva, è fortemente negativa, creatrice di sottosviluppo, e quindi un fenomeno che frena ed impedisce un futuro di progresso. Insomma si deve combattere e vincere il ricatto mafioso: controllando i voti dei partiti, indicando cioè al popolo come e chi deve votare, la mafia si serve di quest’obbligo e ricatta il potere per la sua impunità. La mafia dunque non è antistato ma stato. A riprova di questa affermazione basti ricordare il coinvolgimento dei servizi segreti negli omicidi di Falcone e Borsellino, di recente rivelazione e conferma. L’attività di Vito è stata anche di carattere sindacale. Già segretario regionale del SASMI (Sindacato Autonomo Scuola Media Italiana) negli anni della sua permanenza in Calabria, fu poi Mario Mineo a suggerirgli di aderire alla CGIL negli anni ‘70, sindacato con il quale promosse le lotte per l’entrata in ruolo dei docenti e il superamento del precariato. Ben presto però, si trovò in dissenso con un dirigente nazionale, di dubbie capacità, e quindi sollevato dalla carica che rivestiva di segretario provinciale della CGIL-scuola ed emarginato per quell’assenza di democrazia interna che c’è ancora oggi nell’organizzazione. Ebbe così termine la sua esperienza sindacale, sebbene rimanesse sempre iscritto alla confederazione. Un gran “rompiscatole” Vito Mercadante, per il sindacato, ma non solo. Un provveditore arrivò persino a farlo pedinare quando entrava negli uffici, per timore e precauzione. A Palermo, il “fare”, l’agire per il cambiamento, il creare situazioni innovative che rendano la realtà obsoleta sono pericolosi, disturbano, provocano ostilità. O chissà forse anche rimorso in chi non lavora o lavora poco, o non come dovrebbe, e quindi generano avversione e paura. Ma Vito non si scoraggia, né si arrende. Ha dedicato la sua vita alle sue passioni e ai suoi ideali, spendendo per essi la maggior parte del suo tempo, al punto che persino l’amore è stato per lui secondario e subordinato al suo impegno morale e civile, da uomo politico impegnato, non come uomo di partito ma come semplice cittadino. Non ha una gran considerazione della donna Vito, vista come compagna di viaggio nella sua lotta politica e di miglioramento delle condizioni generali dell’uomo. Mi racconta di averne conosciuto ben poche che abbiano assunto responsabilità ed impegno di lotta politica e civile. Si commuove quando ricorda la prof.ssa Adele Rivarola, morta di cancro a soli 55 anni, vicepreside della scuola palermitana da lui diretta.
Nel’88, dopo 40 anni di servizio, il “maestro della Zisa” lascia la scuola e va in pensione. Aveva lavorato, nella borgata palermitana, in rapporto diretto con la sezione del PCI della Noce, modello di impegno civile originalissimo quanto raro o meglio inesistente nella realtà siciliana. Lo scopo era quello di rendere la borgata della Zisa parte della città, migliorandone le condizioni urbane, quindi le fognature, le condotte d’acqua, curando la sistemazione degli edifici crollati, trasformando le discariche in ville, cercando di estendere le zone verdi, organizzando i cittadini nelle lotte per ottenere dall’amministrazione pubblica attenzione, interesse e finanziamenti. Erano gli anni del sindaco Leoluca Orlando, quelli della “primavera di Palermo”, che con la sua elegante stilografica appuntava tutti i problemi e poi effettivamente dava loro una risposta. Fu un periodo felicissimo per la borgata, grazie anche all’attività del sindaco, che aveva cominciato la sua avventura politica proprio con Vito Mercadante, conosciuto in occasione della presentazione alla RAI di un suo libro, “Antologia e storia della mafia”, edito da Vaccaro, di Caltanissetta. Come è noto, Orlando fondò poi, insieme al gesuita Padre Pintacuda, sociologo di chiara fama, il movimento della “Rete” arenatosi per contrasti tra i suoi fondatori. Come tutte le cose siciliane, purtroppo, si comincia bene ma poi, per effetto dei conflitti di personalità, tutto muore. In Sicilia, dice Vito, la personalità e l’ego sono più forti di qualsiasi cosa. Notevole anche il contributo di Vito Mercadante alla ricerca storica siciliana. Soprattutto riguardo alle vicende risorgimentali. Nei suoi scritti ha messo in risalto il ruolo delle rivolte siciliane e dei “picciotti” nella cacciata dei Borbone. Mentre la storiografia ufficiale continua a negare la partecipazione del popolo, sostenendo che fu tutto merito di Garibaldi. Ma basti pensare che, essendo il fronte di lotta di 12 km, avrebbe potuto schierarsi soltanto un garibaldino ogni 20 metri, e sarebbe stato dunque impossibile sconfiggere l’esercito borbonico. Furono invece le rivolte del ’20 del ’48 e, soprattutto quelle degli anni 55-60 - unica città in Italia, Palermo, ad aver fatto ben tre rivoluzioni- ad attirare l’attenzione di Garibaldi e degli esuli siciliani in Piemonte, sicché si pensò che bastassero pochi uomini provenienti dal continente per unificare i movimenti rivoluzionari siciliani e vincere i Borbone. Ma doveva risultare che tutto avesse fatto Garibaldi. La Masa, il vero stratega e capo militare delle battaglie, chiese a Crispi che venisse menzionato nei bollettini militari il contributo del popolo siciliano. Gli fu risposto che non era assolutamente possibile. Preparata a futura memoria l’epopea garibaldina. Anche un altro episodio della storia siciliana vede partecipe Vito, questa volta in modo diretto: la strage di Portella della Ginestra, che significò una vera e propria svolta nella storia italiana, in quanto reazione armata dello stato per fermare il movimento di lotta che stava avendo un grande sviluppo. Fu incaricato da Pompeo Colajanni di accompagnare a San Giuseppe Jato le salme dei ragazzi uccisi e morti negli ospedali di Palermo. I poliziotti avevano un terrore enorme della banda Giuliano, sicché deposero le armi sul fondo della jeep, lasciando a Vito ed ai suoi compagni la difesa armata in caso di attacco. Vito amerebbe essere ricordato principalmente come un “educatore”: un giorno un signore ben vestito e molto distinto, lo ferma per strada e lo saluta calorosamente. Alla sua richiesta di presentarsi, giacché non aveva idea di chi fosse, gli risponde che era stato un suo studente ai corsi serali delle 150 ore nella scuola da lui diretta, un idraulico che in seguito a quella esperienza, aveva poi continuato gli studi ed era diventato professore universitario. Napoleone diceva ai suoi soldati “ognuno di voi porta nello zaino il bastone di maresciallo dell’Impero”, ognuno di quei corsisti, dice orgoglioso Vito, sarebbe potuto diventare qualcosa. Ma non ha una grande stima del popolo siciliano: è servile, come lo definì Consolo, vegeta nel presente, non ha passione per il passato, né amore per il futuro. Un popolo sostanzialmente di “ladri”. Anche di idee. E’ instancabile Vito nella sua operosità. Raggiunta l’età della pensione, non smette di agire e di lottare. Crea una casa editrice: Rinascita Siciliana, proprio per continuare a fornire strumenti alla scuola per una didattica antimafia. Scrive diversi testi per affiancare la storia della mafia alla storia nazionale, strettamente connesse in particolare nel ‘900. Ma è anche necessario offrire al pubblico di studenti e professori conoscenze sulle specificità della mafia, le sue connotazioni: la forza economica, la sottocultura, la complicità con lo stato, giacché la mafia si erge a paladina delle forze della conservazione italiana. E’ sua l’idea, realizzata anche attraverso la casa editrice, di un’antimafia come “rivoluzione culturale”. Il libro al quale Vito è emotivamente più legato è la “Terra del Caos”, il cui giudizio positivo fu espresso da Norberto Bobbio quando scrisse che in quei racconti sono rappresentate una terra ed una gente dove la ragione non esiste, considerazione che sottolinea l’appropriatezza del titolo. Cerca di tenere la morte il più lontano possibile, Vito, continuando a vivere come ha sempre vissuto. Mi ricorda Mario Monicelli, di 91 anni. Come lui ha lucidità di pensiero, memoria storica, gioia di vivere. Ma se il grande regista non ha paura della morte ed è curioso di vedere come va a finire, come ha dichiarato in un’intervista di Fabio Fazio a “Che tempo che fa”, in Vito c’è più il desiderio di continuare a vivere. Non pensa alla morte, e ancora diversamente da Monicelli, che ama la solitudine, è un “amicionario”, ha bisogno di amici e li “disturba” continuamente per telefono. Anna Maria Ajovalasit, Elio Giunta, Aldo Lentini, Salvo Riciciardi, i vecchi compagni del sindacato. E’ un “realizzatore” Vito, non ha sogni nel cassetto, né rimpianti. Un lottatore, un rivoluzionario, un amante della libertà di pensiero e di critica. Uno “scucivulo” e soprattutto uno spirito libero. Il giorno più felice della sua vita è quello della liberazione di Firenze, nel ’43, al suono delle campane del Bargello, insieme a quello, nel ’46, dell’annuncio della caduta di Mussolini, che lo colse di sorpresa, quasi non ci credeva. La festa in mezzo alla strada, i soldati che tiravano in aria la berretta e poi la riprendevano, quel gioire del popolo lo convinsero della realtà. Lo ascolto ormai da quasi 30 anni di frequentazione, con lo stupore di chi, da lui, impara sempre qualcosa. Ha nel sangue e nell’animo l’insegnamento essenzialmente come arte. E la passione nel trasmettere agli altri non mere nozioni, ma il frutto dei suoi studi, i suoi ideali e la sua ricca esperienza, mi emoziona ed entusiasma insieme. Grazie Vito.
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News » PERSONAGGI | Friday 13 January 2017
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