19 LUGLIO 1992: STRAGE DI STATO

19 July 2019

di Giovanni Schiavo

Il 19 luglio 1992. Quel giorno, all’incirca verso le 17.00, una colonna di fumo nero si è alzata da pochi attimi tra i palazzoni di Palermo, nella centralissima via Mariano d’Amelio. È una colonna di fumo che sa di morte e che investe come un assordante vagito una domenica d’estate. Alle ore 16.58 del 19 luglio 1992 quella che verrà poi indicata essere stata un’autobomba squarcia il ventre molle dell’Italia.

Il giudice Paolo Borsellino, Procuratore Aggiunto della Repubblica di Palermo, è morto. Insieme a lui, in quella che sarebbe stata ribattezzata “Strage di Via D’Amelio”, il capo-scorta Claudio Traina, gli agenti Vincenzo Li Muli, Walter Cusina, Agostino Catalano e Emanuela Loi, la prima donna poliziotto a morire in servizio.Nella comunicazione di notizia di reato del 20 luglio 1992 della Squadra Mobile della Questura di Palermo, la ricostruzione dell’accaduto inizia così: «Alle ore 16.58 circa del 19 c.m., personale della Volante “21”, nel transitare per questa Piazza Giacchery, udiva una forte deflagrazione provenire dalla parte ovest della città, fatto che subito induceva a pensare che era accaduto qualcosa di grave. Notiziata la Sala Operativa il suddetto personale si dirigeva immediatamente verso la zona, e giunto in via Autonomia Siciliana, angolo via D’Amelio, si trovava dinanzi ad uno scenario agghiacciante. Decine di auto distrutte dalle fiamme, altre che continuavano a bruciare, proiettili che a causa del calore esplodevano da soli, gente che urlando chiedeva aiuto, nonché alcuni corpi orrendamente dilaniati dall’esplosione. Nell’occorso un individuo, notata la vettura della Polizia, vi correva incontro, imprecando aiuto ed asserendo di essere uno degli uomini della scorta del Dr. Borsellino e che quest’ultimo, unitamente agli altri cinque componenti la scorta erano deceduti a seguito di una violentissima esplosione».

Cosa era successo poco prima dell’esplosione? A raccontarlo è Antonio Vullo, unico agente della scorta sopravvissuto. Lui e i suoi colleghi, arrivati presso l’abitazione estiva del giudice, a Villagrazia di Carini, all’incirca alle 13.30, avevano dato il cambio agli agenti della scorta “H24”. Intorno alle ore 16.00 Borsellino chiamò i due capi-pattuglia delle autovetture della scorta, Traina e Catalano, per comunicare che poco dopo avrebbe dovuto recarsi dalla madre, in via D’Amelio. Borsellino, tra l’altro, diede loro le indicazioni occorrenti per raggiungere l’indirizzo. Era la prima volta che gli agenti si recavano lì. Pochi minuti dopo il corteo di macchine partì in direzione di via D’Amelio. Era composto dall’auto di “staffetta”, guidata dal Vullo – che aveva capito dove si trovasse via D’Amelio – con a bordo Li Muli e Traina; dalla macchina condotta da Paolo Borsellino; e dall’altra auto di scorta in cui viaggiavano Catalano, Loi e Cosina.

Dopo avere percorso l’autostrada dallo svincolo di Carini a quello di Via Belgio, le autovetture, che procedevano ad una velocità abbastanza sostenuta, imboccarono via dei Nebrodi, proseguendo fino a via delle Alpi e svoltando ancora in viale Lazio, percorsero via Massimo D’Azeglio fino a via Autonomia Siciliana, per arrivare infine in via D’Amelio.

Antonio Vullo racconta ai magistrati, che lo interrogano qualche anno dopo, di aver rallentato, soffermando lo sguardo sulle numerose macchine parcheggiate a spina di pesce, ambo i lati della via (che comunque non aveva un’uscita). Una circostanza che “infastidisce” – termine utilizzato da Vullo nella sua deposizione – gli agenti, poiché in quel luogo risiedeva la madre del magistrato. Solo in seguito Vullo avrebbe appreso che era stata presentata da alcuni colleghi una relazione finalizzata a ottenere una zona rimozione sul posto.

Prima che Vullo e Traina avessero il tempo di prendere qualsiasi decisione, Borsellino li sorpassò e posteggiò la propria autovettura al centro dell’unica carreggiata presente, davanti al cancelletto posto sul marciapiede dello stabile. Vullo fece scendere dalla propria autovettura gli altri componenti della scorta, che avrebbero dovuto bonificare il portone dello stabile, e si spostò in corrispondenza della fine di via D’Amelio, per impedire l’accesso di altre macchine. Uscito dall’abitacolo del veicolo, Vullo vide che Borsellino era andato a pressare il campanello del cancelletto ed aveva acceso una sigaretta. Accanto a lui vi erano Catalano e Loi, mentre Traina e Li Muli stavano tornando indietro. Qualche secondo dopo, il magistrato e i suddetti componenti della scorta entrarono all’interno del piccolo cortile nel quale vi era il portone dello stabile. Vullo vide che Cosina era fermo davanti all’altra macchina, intento ad accendersi una sigaretta, e pensò quindi di avvicinare ad essa anche l’auto da lui guidata, posizionandola di modo da essere pronti a ripartire. Durante questo spostamento, Vullo vide che Borsellino e gli altri componenti della scorta erano sempre fermi davanti al portone di ingresso dello stabile, dove il magistrato stava pigiando sul campanello. Mentre Vullo era intento a fare manovra, venne investito da una corrente di vapore e polvere ad altissima temperatura all’interno dell’abitacolo. Sceso dalla macchina, si rese conto di quanto era accaduto. In via D’Amelio era calata una pesante oscurità e la visibilità era assai limitata.

“L’esplosione… sono stato investito io da una nube abbastanza calda, all’interno dell’abitacolo sono stato sballottato, sono uscito dal veicolo e tutto distrutto, già avevo visto il corpo di un collega, dell’autista Cusina, che era accanto alla mia macchina, e… mi sono messo a girare così, senza nessuna meta, cercando aiuto o dando aiuto agli altri colleghi…”. Vullo affermò di aver visto solo “brandelli”, mentre cercava di muoversi all’interno della cortina di fumo; si dirisse prima verso la fine di via D’Amelio poi verso via Autonomia Siciliana. Ed è qui che i primi colleghi giunti a prestare soccorso lo trovarono.

L’agente Vincenzo Alberghina, che arrivò sul posto coi colleghi della “volante 21”, racconta: “…abbiamo visto la via D’Amelio e c’era questa immagine di guerra, sembrava quasi. Tutte le auto in fiamme, tutte le auto in fiamme, non riuscivamo a capire inizialmente di che cosa si trattasse. Dopodiché abbiamo visto uscire… siamo scesi immediatamente, abbiamo visto uscire dalla sinistra il collega che effettivamente era scampato. Non sappiamo di che cosa si trattasse, abbiamo chiesto che cosa era successo e ci disse che si trattava della scorta di Borsellino, lui era riuscito a scampare e ha questo punto io ho preso… ho fatto accompagnare il collega direttamente dalla mia volante al pronto soccorso, perché era sanguinante, in evidente stato di choc… io sono rientrato nella zona dov’era successo il fatto. Siamo risaliti nei piani superiori, abbiamo soccorso le persone che scendevano dai palazzi e quello che c’era a terra era… quello che effettivamente era successo, tutti i corpi mutilati e le macchine in fiamme ancora e nient’altro”.La deflagrazione causata dall’autobomba, una Fiat 126 di colore rosso – almeno così racconta uno dei testimoni che qualche ora prima aveva parcheggiato la propria macchina accanto a quell’auto – posta di fronte al civico 19 è così potente da lasciare un cratere.

Di Paolo Borsellino e degli agenti di scorta rimangono le membra. Resti umani che vengono rinvenuti al primo e al secondo piano degli stabili circostanti. Una mano viene ritrovata dietro il palazzo dov’era avvenuto lo scoppio: aveva fatto un salto di dodici piani. Nei giorni immediatamente successivi, in più di un’occasione, vengono trovati parti di corpo umano, “membra che non si capiva cosa fossero, però si capiva soltanto che erano resti umani”.

Il cadavere di Paolo Borsellino viene rinvenuto con indosso una cintura in cuoio marrone con un frammento in stoffa, residuo della cintola dei pantaloni e un frammento di stoffa di cotone verde, residuo di una maglietta “polo”. Al suo corpo mancavano l’arto superiore destro ed entrambi gli arti inferiori. Buona parte dell’addome e del torace, nonché del viso, era bruciato. Il colore nerastro ricopriva la pelle. Questi dettagli crudi aiutano a comprendere la scena che si presenta ai primi soccorritori.

Il corpo del magistrato senza vita viene riconosciuto dal suo tratto più distintivo, i baffetti.

Si comprese che uno dei cadaveri era quello dell’agente Emanuela Loi da uno dei due seni rimasto pressoché integro.

Sul luogo della strage però muore soltanto chi deve morire. Con un atto terroristico senza precedenti, collegato anche a quanto successo a Capaci, a perdere la vita sono i fedeli servitori dello Stato. Nessun’altra persona muore. Nessun effetto collaterale, almeno apparentemente, accade in via D’Amelio.

Nei giorni successivi proseguivano i lavori di recupero – scrive Enrico Deaglio nel “Il vile agguato” – ma senza metodo. Cinquantasei sacchi neri, quelli usati per l’immondizia, venivano riempiti di pezzi di ferro, di cicche, di detriti e inviati per l’analisi agli esperti dell’Fbi. Lunedì 20 luglio una targa – PA 878659 – veniva ritrovata sotto un’auto bruciata. A molta distanza dall’esplosione veniva rivenuto un intero blocco motore di un’utilitaria. Tre giorni dopo, a seguito dell’inventario delle ventuno automobili coinvolte nell’esplosione, la targa e il blocco motore sarebbero diventate per gli inquirenti, coadiuvati dai tecnici della Fiat di Termini Imerese che risalivano al numero di telaio, parte della stessa autovettura: una Fiat 126 del 1985, che sarebbe risultata poi essere stata rubata il 9 luglio alla signora Pietrina Valenti.

Intanto, sempre in quel 20 luglio, il signor Giuseppe Orofino, proprietario di una carrozzeria in via Messina Marine, si accorgeva che era avvenuto un furto. Da una Fiat 126 di proprietà della signora Anna Maria Sferrazza, erano state sottratte le targhe, il libretto di circolazione e l’assicurazione. Il signor Orofino si recava subito al commissariato di Polizia per denunciare il furto. Ma qui, “con sua grande sorpresa, trasformatasi subito in timore, si trova trattato come un delinquente. L’officina viene perquisita, lui stesso intimidito”.

Poi, il 13 agosto 1992, a nemmeno un mese di distanza dalla strage, un appunto del Servizio segreto civile partiva dal centro Sisde di Palermo verso Roma, protocollato col numero 2298/Z.3068, per informare che “in sede di contatti informali con inquirenti impegnati nelle indagini inerenti alle recenti note stragi perpetrate in questo territorio, si è appreso in via ufficiosa che la locale Polizia di Stato avrebbe acquisito significativi elementi informativi in merito all’autobomba parcheggiata in via D’Amelio, nei pressi dell’ingresso dello stabile in cui abitava la madre del Giudice Paolo Borsellino. […] In particolare, dall’attuale quadro investigativo emergerebbero valide indicazioni per l’identificazione degli autori del furto dell’auto in questione, nonché del luogo in cui la stessa sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato”.

Un appunto su cui nessun agente in servizio all’epoca tra Palermo e Roma ha saputo o voluto dare spiegazioni. Un appunto strano e inquietante, perché a quella data non c’era ancora alcun pentito che parlasse del garage che avrebbe nascosto la Fiat 126. Solo un mese più tardi, il 13 settembre, Salvatore Candura avrebbe cominciato a parlare di questa macchina fino ad autoaccusarsi del furto commissionatogli da tale Vincenzo Scarantino, delinquente e piccolo spacciatore, “che gli aveva promesso un compenso di 500.000 lire”. Poi sarebbe arrivato il “pentito” Francesco Andriotta a confermare la confessione dello stesso Scarantino, che più volte aveva ritrattato e più volte aveva ammesso le proprie responsabilità, dimostrando soltanto un fatto: di non essere credibile. Tutto falso, come le dichiarazioni di Andriotta e Candura, ma, invece, tutto giudicato attendibile dagli organi inquirenti e giudicanti, che sulle dichiarazioni di Scarantino hanno istruito processi e condannato individui che non c’entravano nulla con la strage.

Soprattutto, si è costruita una falsa verità sulla morte di Paolo Borsellino a cui avremmo dovuto credere, quasi ciecamente. Su cui lo stesso Paolo è morto nuovamente, insieme agli agenti della sua scorta.

A neanche un’ora dalla strage, si sa che a causare l’esplosione è stata un’autobomba. Ancor prima di dare notizia della morte di Borsellino, si viene a sapere che la vettura utilizzata è una Fiat.

Scrive Deaglio nel suo libro, sottolineando la singolarità della compagnia: “Il proprietario della barca, signor Giovanni Valentino, ha un grosso negozio di abiti da sposa ed è in buoni contatti con il noto mafioso Raffaele Ganci; il dottor Lorenzo Narracci è il fedele assistente del capo dei Servizi segreti, Bruno Contrada, anche lui presente. (Abita ormai a Roma, ma è tornato a Palermo per le ferie.) C’è anche un capitano dei carabinieri. Alle ore 16.58 e venti secondi, mezza Palermo ha sentito il boato, ma non saprà per almeno mezz’ora che cosa è successo. Sulla barca ricevono una telefonata che parla di un attentato e il dottor Contrada ottiene conferma dal centro Sisde di Palermo che si è trattato di un attentato contro il giudice Borsellino, per cui decidono di tornare a riva, cambiarsi d’abito e andare a dare un’occhiata sul luogo dell’eccidio. Lo scambio delle telefonate ha occupato appena il tempo di cento secondi. Certo, se il capo era in ferie in barca, al centro Sisde di Palermo erano sul pezzo. Nonostante fosse una domenica di luglio”.

Per rassicurare il popolo, occorreva trovare al più presto un colpevole. Le indagini sulla strage vennero assegnate al “gruppo Falcone-Borsellino” guidato dal capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera (morto nel 2002). Fu il Prefetto Luigi De Sena, all’epoca capo del Sisde (poi senatore del PD, morto nel 2015) a optare per questa scelta, confermata da un decreto urgente della Presidenza del Consiglio. La Barbera era un vecchio amico di De Sena e – particolare non di poco conto – era stato anche suo confidente al Sisde, il servizio segreto, con il nome in codice “Rutilius” (notizia che si sarebbe appresa nel 2010).

A fine settembre veniva trovato un “colpevole”, si chiamava Vincenzo Scarantino, aveva all’epoca 27 anni e precedenti penali per furto e spaccio. Era stato lui a organizzare il furto della Fiat 126. Lo accusavano altri tre delinquenti arrestati in agosto per presunta violenza carnale. A dicembre, neanche due mesi dopo l’arresto di Scarantino, in seguito ad un’indagine collegata alle ultime investigazioni di Borsellino e sulla base delle dichiarazioni di alcuni pentiti, veniva arrestato per il reato di “concorso esterno in associazione mafiosa”, Bruno Contrada (uno dei quattro uomini che era in barca quel pomeriggio del 19 luglio e che presto accorreva in via D’Amelio), ai vertici del Sisde, i cui colleghi erano quelli che perseguivano la pista Scarantino.

L’arresto di quest’ultimo veniva annunciato così dal Procuratore Tinebra: “Siamo riusciti con un lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori, che hanno lavorato in sintonia, a conseguire un risultato importante quale l’arresto di uno degli esecutori della strage di via D’Amelio”. Ma ai giornalisti che già obiettavano nella prima conferenza stampa su come Cosa Nostra avesse fatto ad affidarsi a un balordo, Tinebra rispondeva: “Scarantino non è un uomo di manovalanza”.

Il 24 giugno 1994 Scarantino iniziava a parlare. Denunciava, poi ritrattava, si smentiva da solo, piangeva. Si vociferavano storie di tradimenti e omosessualità. Veniva messo a confronto con alcuni mafiosi di rango, divenuti collaboratori di giustizia, e da lui accusati di aver preso parte al disegno stragista di Cosa Nostra. Gli stessi mafiosi non riconoscevano Scarantino, sentendosi presi quasi in giro e suggerendo ai magistrati di non dargli ascolto.

Col tempo, le dichiarazioni di Scarantino venivano perfezionate: la Fiat 126 non l’avrebbe presa alla Guadagna, la sua borgata, ma in via Roma. Parlava di Salvatore Cancemi, Santino Di Matteo, Raffaele Ganci e Giovanni Brusca, chiarendo il perché della sua ritrosia a fare i nomi di questi ultimi due: “Avevo paura di far i loro nomi perché sapete quelli si mangiano i bambini vivi; me l’ha detto mio cognato”.

Emergevano anche testimonianze di promesse da parte dei poliziotti, di violenze in carcere e di pressioni sulla sua famiglia (il fratello dichiarava: “Stanno vestendo il pupo”), di verbali ritoccati e concordati, di interrogatori condotti in modi anomali. Scarantino arrivava persino a telefonare a “Studio Aperto”, tg di Italia1, per denunciare la situazione che era costretto a subire (eppure allora la Procura di Caltanissetta riteneva credibile Scarantino così come i giudici che, sulla base delle dichiarazioni dello stesso Scarantino e di quelle resa da Salvatore Candura e da Francesco Andriotta , hanno emesso sentenze di condanna a carico di personaggi che non c’entravano con l’attentato. Altri magistrati che interrogavano Scarantino, invece, si dissociavano dalla scelta di ritenerlo uno dei colpevoli della strage, come il magistrato Alfonso Sabella, che, ascoltandolo a Palermo, lo definiva “fasullo dalla testa ai piedi”.

Si tratta, ancora oggi, di un “passaggio” assai delicato che coinvolge magistrati assai importanti: ad esempio, la pm Ilda Boccassini all’epoca nella stessa Procura di Caltanissetta (dove, secondo il pm Di Matteo, era spesso in compagnia di Arnaldo La Barbera), applicata alle indagini sulla Strage di Capaci, ha dichiarato di aver inviato un’annotazione, concordata col collega Roberto Saieva, sull’inattendibilità dello stesso Scarantino al Procuratore Tinebra e ai colleghi Di Matteo e Palma, i quali, però, avrebbero dichiarato alcuni anni dopo di non avere mai ricevuto. Inoltre, si chiede oggi Fiammetta Borsellino: “Perché la pm Ilda Boccassini, firmataria insieme al pm Sajeva di due durissime lettere nelle quali prendeva le distanze dai colleghi che continuavano a credere a Scarantino, autorizzò la polizia a fare dieci colloqui investigativi (assai irrituali) con Scarantino dopo l’inizio della sua collaborazione con la giustizia?”. Questa ed altre domande  poste da Fiammetta attendono ancora risposta.

La missiva sull’inattendibilità del falso pentito, infine, sarebbe stata rivenuta poi a Palermo e non a Caltanissetta. Misteri, dunque, assai velenosi. E, nonostante i dubbi, Vincenzo Scarantino rimaneva per quasi vent’anni, un’abile stratega militare, un picciotto salito presto al rango di mafioso, a cui Cosa Nostra aveva affidato il compito di uccidere Paolo Borsellino.

I processi hanno dato credito alle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino: un’ottantina di giudici tra l’Assise, l’Appello e la Cassazione hanno condannato persone che nulla hanno avuto a che fare con la strage.L’anno 2008 pare essere lo spartiacque della lunga storia dei processi sulla Strage di via D’Amelio. Si concludono i procedimenti giudiziari iniziati ancora prima del nuovo Millennio. Soprattutto, inizia a collaborare un mafioso fino ad allora sconosciuto ai più: Gaspare Spatuzza, che non solo ammette di essere l’esecutore materiale dell’omicidio di Don Pino Puglisi, il prete di Brancaccio ucciso nel 1993, ma dice anche di aver rubato la Fiat 126 usata per l’attentato. Spatuzza  racconta la stagione delle stragi di Cosa Nostra, sbugiardando quanto ammesso, anche non volutamente, da Vincenzo Scarantino e, di fatto, la versione precostituita che il falso pentito aveva, a fasi alterne, portato avanti fino a quel momento. Spatuzza viene ritenuto attendibile. È questo non piccolo particolare la vera svolta perché costringe a rivedere tutta la montatura orchestrata fino ad allora. In altre parole, finalmente si può parlare, anche se inizialmente con molta fatica, di depistaggio sulla strage di via D’Amelio.Il 13 luglio 2017, a quasi venticinque anni di distanza dal 19 luglio 1992, il Processo di Appello di revisione per la Strage di via D’Amelio, voluto dalla Procura di Caltanissetta nel 2011, a seguito delle dichiarazioni di Spatuzza, si conclude con l’assoluzione dal reato di strage per dieci imputati: Gaetano Murana, Giuseppe Orofino, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Salvatore Profeta, Giuseppe La Mattina, Gaetano Scotto, Vincenzo Scarantino e Salvatore Candura. Assolto anche Salvatore Tommasello, che intanto è deceduto. Il caso di Gaetano Murana a ridefinire la tragedia nella tragedia. 18 anni in carcere da innocente. 18 anni di carcere, una moglie e un figlio – all’epoca dell’arresto – di due mesi. 18 anni di carcere perché era stato riconosciuto colpevole di aver partecipato alla riunione deliberativa della strage con i capi di Cosa Nostra; di aver “bonificato” la zona in cui sarebbe passata la Fiat 126; di aver fatto da battistrada alla stessa auto, dall’officina di Orofino fino a piazza Leoni. Condotto a Pianosa, aveva subito sevizie , perquisizioni anali , botte il tutto accompagnato sempre dalle risate delle guardie di custodia. Murana è figlio di un pescatore, faceva lo spazzino all’Amia. Per via del processo è stato prima sospeso e poi licenziato. Quando venne assolto in primo grado tornò in servizio e il primo incarico che gli diedero fu quello di andare a spazzare davanti al carcere dell’Ucciardone. Murana non ha mai avuto un confronto con Scarantino, era sconosciuto a tutti e gli era stato assegnato un difensore d’ufficio, fino a quando l’Avvocato Rosalba Di Gregorio non si interessò alla sua situazione. Arrestato il 19 luglio 1994. Scarcerato il 14 febbraio 1999. Veniva condannato all’ergastolo e rientrava in carcere spontaneamente nel 2002. Fu l’unico che non si rese irreperibile. E disse anche il perché ad un giornalista che gli domandava perché non fosse scappato. “Non ci ho proprio pensato, io ero innocente”, rispose Murana. Usciva dal carcere il 27 ottobre 2011 per sospensione della pena, dopo che le accuse di Scarantino erano definitivamente crollate. Prima, quando Scarantino fece la sua grande prima ritrattazione, disse di lui: “Murana l’ho accusato perché lo conoscevo e mi era antipatico perché non mi dava confidenza”. Successivamente, a un giornalista che domandava a Murana cosa avrebbe fatto se avesse visto Scarantino, lui rispose: “Ma guardi, lo inviterei anche a prendere un caffè. Perché hanno preso in giro pure lui”. 18 anni in carcere da innocente perché era ritenuto colpevole dalla Procura di Caltanissetta, perché Scarantino era attendibile ma c’erano anche “prove inconfutabili”, perché i giudici di primo grado, di secondo grado e della Cassazione hanno creduto a tutto questo.

19 luglio 1992. Una strage di Stato.

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