PALESTRO: STRAGE MAFIOSA A MILANO

27 July 2019

di Giovanni Schiavo

Alle 23.14 del 27 luglio 1993 un ordigno esplode a Milano, in Via Palestro. Esplode come se fosse una cosa normale, qualcosa a cui ci si può abituare Un’autobomba per l’esattezza, una Fiat Uno imbottita di tritolo. Un emblema mafioso che di notte svegliava la capitale del Nord Italia da un torpore flebile: quello di essere almeno immune alle angherie della mafia. Fu una strage.

Quella notte, infatti, Alessandro Ferrari, trentanni, agente di Polizia Locale, sull’autopattuglia “Monza 3”, aveva notato del fumo bianco fuoriuscire da un’automobile parcheggiata in Via Palestro. Come da prassi, aveva richiesto l’intervento dei Vigili del Fuoco. Ferrari aveva anche bloccato la strada e chi si accingeva a percorrerla.

Virginio Tornaghi, un operaio che in bici stava raggiungendo Piazza Cavour, raccontò di essere stato fermato da Ferrari e poi: “Vedo più avanti la Fiat, vedo una fiammella sul davanti, poi i vigili del fuoco intorno, che lavoravano. Me ne sono stato lontano, all’improvviso c’è stata un’esplosione fortissima, che mi ha buttato per terra”.

I Vigili del Fuoco, infatti, allertati da Ferrari, erano giunti dalla Caserma di via Benedetto Marcello. Erano in sette a comporre la squadra di turno quella sera

Stefano Picerno, il caposquadra, avvicinatosi alla macchina, aveva aperto il baule posteriore da cui proveniva il fumo bianco e avevo notato un pacco sospetto.

Fu una questione di un paio di minuti, non di più. Qualcuno aveva gridato “Via! Via!”, “Una bomba!”.

Il caposquadra aveva invitato i suoi compagni ad allontanarsi e mentre stava avvisando la Questura perché mandassero gli artificieri avvenne l’esplosione.

Picerno era appena tornato dalla luna di miele in Costa Brava proprio quel giorno, il 27 luglio. Gli era stato ordinato di fare il turno di notte, che aveva accettato senza fare problemi. Aveva portato al lavoro un vassoio di paste e una bottiglia di prosecco per festeggiare il suo matrimonio e anche il compleanno di Sergio Pasotto. Poi era uscito con i colleghi per quell’intervento all’apparenza normale. Carlo La Catena, invece, appena ventiquattro anni, aveva scelto di fare il turno di notte. Faceva sempre così perché, quando poteva, tornava nella sua Napoli. In questo modo, scegliendo quel turno, poteva rientrare a Milano il più tardi possibile.

Furono La Catena, Picerno e Pasotto a morire quel 27 luglio. Con loro, morì anche Alessandro Ferrari, lui, che voleva salvare gli altri, non riuscii a sopravvivere alle ferite gravissime: sbalzato via dall’urto d’aria per venticinque metri, avrebbero ritrovato il suo corpo nel parco poco distante.

Ma quella sera morì anche Driss Moussafir, 44 anni, un signore marocchino, che aveva scavalcato la bassa cancellata dei giardini pubblici vicini al Museo di Scienza Naturale e si era sdraiato sulla panchina. E su quella panchina è passato dal sonno alla morte, squarciato da un pezzo di lamiera. È morto così, per caso.

Detriti sparsi per 80 metri. Un pezzo del motore della Fiat finito sul balcone del terzo piano al civico numero sei; in linea d’aria a 100 metri dall’esplosione. La facciata del Padiglione devastata. Uno dei Vigili del Fuoco, posto su una barella, sembrava muoversi, come se non si desse pace. Ma era già morto. Solo, parti del suo cadavere – prima il gomito, poi la gamba – fuoriuscivano dal telo posto sopra a coprirlo.

La sera del 27 luglio 1993, in effetti, altri due ordigni esplodevano a Roma, danneggiando le basiliche di San Giovanni in Laterano e a San Giorgio al Velabro.

È la Cassazione, nel 2002, a ricostruire in parte i fatti. “L’episodio di Milano è stato ricostruito in base alle dichiarazioni di Pietro Carra, Antonio Scarano, Emanuele Di Natale e Umberto Maniscalco. Carra, unitamente a Lo Nigro che aveva con sé una miccia, aveva trasportato ad Arluno l’esplosivo, che era stato macinato e confezionato da Spatuzza, Lo Nigro e Giuliano nel rudere di Mangano, consegnandolo il 23 luglio; Lo Nigro e Giuliano si erano poi recati rispettivamente il 26 e il 27 luglio, a Roma, ove Scarano era impegnato nella preparazione degli attentati alle chiese, Scarano aveva appreso da Lo Nigro che quella sera sarebbero successe cose eclatanti in tutta Italia; aveva inoltre sentito Lo Nigro chiedere a Giuliano se aveva lasciato tutto a posto a Milano e quest’ultimo rispondere affermativamente; dopo gli attentati aveva sentito i predetti parlare tra loro e dire che le bombe di Milano e di Roma sarebbero dovute esplodere contemporaneamente a mezzanotte, ma che a Milano lo scoppio era avvenuto un’ora prima del previsto; la sera del 27 luglio, mentre preparavano l’autobomba nel cortile di via Ostiense per le stragi di Roma, Scarano aveva riferito a Di Natale che quella sera sarebbero scoppiate altre bombe anche a Milano; Scarano sollecitato da Di Natale a portare via l’esplosivo da via Ostiense in Roma, aveva risposto di avere pazienza perché doveva accordarsi con altre persone di Milano”.

Nel 2008 le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza confermavano in parte quanto già si sapeva, ma introducono nuovi elementi d’indagine.

Secondo il mafioso di Brancaccio, il commando che avrebbe agito nella preparazione dell’attentato, sarebbe stato composto da Giovanni Formoso e i fratelli Vittorio e Filippo Marcello Tutino, l’unico che, secondo il pentito, “si muoveva bene su Milano dove aveva lavorato come imbianchino. È stato lui a guidare l’auto in via Palestro”.

Spatuzza, tra l’altro, si è autoaccusato di aver portato l’auto, poi utilizzata per la strage, ad Arluno. Tuttavia Spatuzza afferma anche di non aver mai visto nelle fasi preparatorie dell’autobomba Giovanni Formoso, già condannato all’ergastolo per la strage di via Palestro.

Ma c’è di più. Spatuzza, durante un interrogatorio, dice che a Milano erano sorti “dei problemi” e che “l’obiettivo venne mancato di 150 metri”. Ma non sa quale fosse il vero obbiettivo.

Secondo il pentito, quindi, non si doveva colpire il Padiglione d’arte contemporanea? E come mai afferma di non sapere quale fosse il reale bersaglio da colpire, ma sa che la bomba esplose a 150 metri dall’obbiettivo sbagliato?

La scrittrice Stefania Limiti nel libro “La strategia dell’inganno” scrive pagine assai interessanti in questo senso. Racconta, ad esempio, della presenza di una donna bella, bionda, magra, che avrebbe parcheggiato l’auto contenente la bomba in via Palestro. Una donna già avvistata – per così dire (c’era un identikit) – anche a Roma, durante l’attento di via Fauro.

In secondo luogo, l’obiettivo della bomba era davvero il Padiglione d’arte contemporanea? Se – come affermano alcuni mafiosi, a partire da Giovanni Brusca – i bersagli da colpire venivano scelti sui depliant turistici, come mai venne scelto proprio il padiglione tra tutte le altre possibilità che offriva Milano? Questo, infatti, non era così conosciuto come la Galleria d’arte moderna, vicina allo stesso padiglione (e forse reale obiettivo). Ma vicino al luogo dove poi avvenne l’esplosione, vi erano anche la stazione dei Carabinieri, in via Moscova, e la Questura, come aveva notato l’allora capo della Squadra Mobile di Milano, il tarantino D’Amato, le cui osservazioni però non vennero tenute in considerazione.Dopo le stragi di Capaci e di Via D’Amelio avvennero gli attentati di Via Fauro e di Via dei Georgofili. La Falange Armata rivendicò l’attentato col codice identificativo 763321, lo stesso utilizzato nelle stragi di Capaci e in Via D’Amelio. Il 2 giugno 1993 viene scoperta un’autobomba, senza innesco, in via Sabini, a cento metri da Palazzo Chigi.

La sera stessa dell’attento di Via Palestro e delle bombe a Roma, il 27 luglio, Palazzo Chigi restò isolato a causa di un black-out telematico: il presidente del Consiglio Ciampi è costretto ad usare il suo cellulare privato.

Il 18 settembre 1993 un’autobomba esplose davanti la caserma dei carabinieri di Gravina di Catania causando il ferimento di quattro militari. Tra il 21 e il 22 ottobre esplose un ordigno sul davanzale della finestra del Palazzo di Giustizia di Padova, provocando danni ma non vittime.

Il 18 gennaio 1994 l’obiettivo furono ancora i carabinieri: in un agguato a Scilla, in Calabria perdono la vita due Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. Il 24 gennaio viene sventato un attentato contro il procuratore della Repubblica di Trapani, Luca Pistorelli, titolare delle inchieste su Gladio e massoneria. Dopo il fallito attentato vicino allo Stadio Olimpico, il 27 gennaio 1994, di colpo gli attacchi allo Stato cessavano.

Insomma un vero e propio piano eversivo e stragista che ricorda molto fatti avvenuti decenni prima dove esecutori erano movimenti di estremisti di destra e di sinistra come orientamento politico ma aiutati nel farlo da apparati “ deviati “ dello Stato.

Secondo la D.I.A. (nota del 10 agosto 1993, con appunto del Direttore De Gennaro), se l’esecuzione e la presenza operativa degli attentati erano da attribuire a Cosa Nostra, il contesto criminale nazionale lasciava “intravedere l’intervento di altre forze criminali in grado di elaborare quei sofisticati progetti necessari per il conseguimento di obiettivi di portata più ampia e travalicanti le esigenze dell’organizzazione mafiosa.

Le sottili valutazioni sugli effetti di una campagna terroristica e lo sfruttamento del conseguente condizionamento psicologico non appaiono essere semplice frutto della mente di un criminale comune: si riconosce in queste operazioni di analisi e valutazione una dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali”.

Secondo Spatuzza, le sole menti dietro la strage sarebbero quelle dei fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, che quella sera, non erano in Lombardia, ma erano ospiti dell’imprenditore milanese Enrico Tosonotti a Forte dei Marmi. Non finì mai nelle inchieste, poi, Robertino Enea, considerato il capo di Cosa Nostra a Milano.

Alcune videocamere l’avrebbero ripreso mentre si trovava all’interno di una sala da biliardo vicino al Padiglione d’arte contemporanea. Al momento dell’esplosione, fu l’unico a non uscire dalla sala e fu poi ripreso mentre frettolosamente si allontanava da via Palestro in direzione opposta al luogo della strage. Non era stato informato dell’attentato?

Cosa rimane oggi della Strage di Via Palestro? Nel 2013 la targa commemorativa che ricordava i cinque caduti di quel giorno – “Vittime innocenti per un vile attentato” – è stata sostituita dalla scritta “Vittime di una strage mafiosa per ricattare lo Stato”. Almeno la memoria cerca di essere un po’ più credibile.

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