IL CASO MORO
05 June 2023
di Salvo Ferlito
A quarantacinque anni dalla morte del politico democristiano un’ipotesi interpretativa leggermente diversa dalle solite
Chi abbia letto i Pugnalatori di Leonardo Sciascia (vero caposaldo intellettuale di ciascuna fondata e pertinente “dietrologia” riguardante il terrorismo) si sarà fatto un’idea chiara e inoppugnabile sull’effettivo esito d’ogni atto terroristico: null’altro che il significativo e concreto rafforzamento dei sistemi politici, economici e sociali dei quali si sia ostentatamente proclamata e rivendicata la completa sovversione. Almeno dalla congiura di Catilina in poi (la cui pericolosità fu “ad arte” enfatizzata – pro domo sua – dall’allora console Marco Tullio Cicerone) fino al tentativo di uccidere Napoleone III da parte di Felice Orsini (che fallì il proprio obiettivo ma causò una vera strage) o ancora all’uccisione di Umberto I operata dall’anarchico Bresci (per vendicare le vittime della repressione messa in atto dal sanguinario generale Bava Beccaris) o a quella dell’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo per mano del nazionalista serbo Princip (che innescò il disastro della prima guerra mondiale), tanto per fare qualche esempio illuminante, gli attentati terroristici non hanno prodotto altro che delle violente reazioni repressive, attuate dal braccio poliziesco (o peggio ancora militare) dei regimi avversati, con tanto di contestuale rinsaldamento degli assetti interni e soprattutto delle posizioni di forza dei gruppi più conservatori e reazionari.
Questa premessa costituisce un atto dovuto, se si vuole tornare a ragionare con adeguata lucidità sull’ancora oscura stagione del nostro terrorismo (di destra e di sinistra), e in particolare sulla vicenda Moro, uscendo dai troppi steccati e dai tanti luoghi comuni (nonché dalle troppe mistificazioni) ai quali da decenni è improntata ogni riflessione.
Se una cosa, infatti, è certa ed assodata, è il fatto che gli innumerevoli crimini di matrice terroristica compiuti negli anni ’70 e ’80, ad onta del tanto cianciare dei vari “reduci” delle differenti (ed anche opposte) fazioni, nient’altro hanno determinato che il consolidamento delle compagini governative di quei periodi, favorendo per di più politiche autoritarie con connotazioni da regime poliziesco.
Proprio sull’idea di “governo di solidarietà nazionale” (vero frutto avvelenato di quella vergognosa stagione) e soprattutto sulla legislazione speciale (fortemente restrittiva nei confronti delle libertà individuali) che lo caratterizzò, bisogna attentamente soffermarsi a meditare per cercare di capire i perché (più o meno malcelati) di quegli eventi ed i “cui prodest” ad essi sottintesi.
Premesso che in quegli anni non vi fu alcuna “guerra civile” (né palese e dichiarata, né latente e strisciante) se non nella fantasia malata degli sciagurati protagonisti di quegli atti (i quali, a distanza di decenni, non sono ancora in grado di effettuare quel doveroso gesto di “contrizione politica” che sarebbe necessario per superare definitivamente e collocare nel giusto contesto classificatorio quel momento storico, riconoscendo che la loro “lotta di classe” altro non era che una “edipica” guerra generazionale, però sapientemente alimentata ed eteroguidata da chi dal caos intendeva ottenere solo un accrescimento dei propri poteri e un consolidamento delle proprie posizioni), c’è da chiedersi se le spiegazioni date in merito ad alcuni fatti – in primis il caso Moro – abbiano un effettivo senso, o se non si tratti ormai di versioni “convenute” che in fondo rassicurano (e deresponsabilizzano) tutte le parti in causa, omogeneizzando ruoli, misfatti e colpe in un mix tanto confuso quanto fuorviante.
Senza voler ricostruire nei dettagli l’iter del sequestro Moro (che costituisce, a tutti gli effetti, il vero “paradigma” e quindi la più accreditata “chiave interpretativa” dell’intera “strategia della tensione” e del “fenomeno terrorismo” nel suo complesso), ma limitandoci a sottolinearne alcuni dei momenti “topici” – dalla “stranezza” del notevole volume di fuoco al momento del sequestro (che lascerebbe presupporre la presenza di molti più tiratori di quanti dichiarati) ai tanti depistaggi (lago della Duchessa, il paese di Gradoli anziché via Gradoli ove era un importante covo delle BR), dal ruolo della loggia massonica segreta P2 (alla quale appartenevano i principali “consulenti” dell’allora ministro degli interni Cossiga e per di più, secondo alcune testimonianze, con tanto di “occasionale” presenza, ad alcune riunioni, dello stesso “venerabile maestro” Licio Gelli) alla “granitica” fermezza opposta a qualsiasi possibilità di trattativa (fermezza del tutto svanita successivamente, allorché si trattò senza alcuna remora per la liberazione di Ciro Cirillo, oscuro assessore democristiano della Campania, però legato al potentissimo ed assai discusso “ras” DC Antonio Gava), dalla comparsa “ad orologeria” di parti del memoriale Moro (il resoconto degli interrogatori cui fu sottoposto il noto politico durante la prigionia, nel quale vi era probabilmente notizia dei vari “segreti” penalmente rilevanti sottesi alle azioni dei partiti e dei governi di quegli anni, quali il finanziamento illecito dei partiti stessi, il ruolo della massoneria, la devianza dei servizi segreti, l’esistenza della Gladio, i legami fra i politici e le organizzazioni mafiose, i colossali imbrogli celati dietro la “cooperazione” con i paesi in via di sviluppo, tanto per fare qualche esempio chiarificatore) alla scia di strane morti di cui sono stati vittime tutti coloro che con la versione integrale di tale memoriale hanno avuto a che fare (dal giornalista Mino Pecorelli fino al generale Dalla Chiesa, la cui “anormalmente preventiva” uccisione ad opera della mafia potrebbe non essere estranea proprio alle vicende di tale memoriale) ed anche all’esteso “perdonismo” che ha contraddistinto l’atteggiamento successivo delle forze politiche nei confronti dei sequestratori (che sembrerebbe più dettato da una significativa capacità di “ricatto” da parte di quest’ultimi, proprio grazie a quelle parti del memoriale mai rese pubbliche ed alle registrazioni degli interrogatori di cui si è persa ogni traccia, che da una sincera volontà “cristiana” di perdono ad opera del mondo politico) – sta di fatto che proprio un’attenta rilettura di questo evento può condurre ad una piena comprensione di ciò che è stata la reale storia italiana degli anni ’70 e ‘80 del secondo ‘900.
Si è sempre asserito che il sequestro Moro, e la sua successiva uccisione, siano stati voluti (o quanto meno auspicati) da tutti coloro (in Italia e all’estero) che non gradivano l’apertura nei confronti del Partito Comunista da parte dell’allora presidente della DC. Bisogna infatti ricordare che proprio Moro aveva perorato il concreto e fattivo avvicinamento fra la DC ed il PCI, finalizzato alla formazione di un governo monocolore democristiano con l’appoggio esterno dei comunisti. Secondo la versione più accreditata e convenuta, dunque, sarebbe stato proprio tale progetto a determinare la precoce e violenta fine di Aldo Moro, attuata senza alcun dubbio dai brigatisti rossi, ma con tanto di beneplacito (e di manovre più o meno occulte) di tutti quegli ambienti conservatori rigidamente contrari ai comunisti ed all’ipotesi d’un loro coinvolgimento (non in termini di mera “non sfiducia”, come avvenuto dal 1976 al 1978, ma nella forma “consociativa” di un più fattivo appoggio esterno) in qualsivoglia tipo di governo.
Tuttavia, a ben analizzare e rileggere quei fatti, potrebbe essere tutt’altra la ragione di quanto accaduto nell’ormai lontano 1978. Il giorno del rapimento, non a caso, proprio l’ennesimo governo monocolore DC (a presidenza dell’immancabile Andreotti) avrebbe dovuto presentarsi in parlamento al fine di ottenere quel fatidico voto di fiducia – in primis dai comunisti – che avrebbe segnato una svolta storica nelle vita politica italiana; un voto però messo seriamente in forse – come recentemente confermato, in un’intervista, dall’ultimo segretario del PCI, Achille Occhetto – dai molti dubbiosi e contrari presenti all’interno della compagine comunista, i quali, con ogni probabilità, avrebbero affossato senza troppe remore questo esperimento politico sul nascere.
Il traumatico ratto di Aldo Moro – con assoluta “tempestività” – parve allora cadere a fagiolo, inducendo – per “causa di forza maggiore” – il completo superamento d’ogni incertezza o resistenza, e di fatto consentendo il varo d’un governo che difficilmente, viceversa, avrebbe potuto avere un normale avvio o comunque una tranquilla continuità. A ciò si aggiunga che la drammatica situazione scaturita dal sequestro finì anche con lo spingere il PCI verso posizioni di estrema durezza (la suddetta contrarietà ad ogni tipo di trattativa, finalizzata a rimarcare la distanza della sinistra parlamentare dalle BR), portando i suoi esponenti (e adepti) ad appoggiare senza riserve quella legislazione “emergenziale” (da stato di polizia) che tanto garbava ai peggiori reazionari e che molto avvicinò il nostro paese ai regimi di tipo autoritario.
In definitiva, rapendo Moro, i terroristi avevano favorito il rafforzamento di quella perversa spirale “reazionaria” (già innescata dai tanti altri delitti ed attentati di matrice politica) che assai difficilmente si sarebbe potuta varare (e fare accettare), senza forti proteste popolari, in assenza di un fatto di tale gravità.
Poco importa, quindi, che fra i terroristi potesse esservi qualche infiltrato (la controversa figura e il ruolo ambiguo di Mario Moretti, per esempio, sono sempre stati oggetto di un accesissimo dibattito), certo è che fu sufficiente dare spazio e libertà di manovra a quattro facinorosi (sedicenti “rivoluzionari” in lotta contro i SIM, Stati Imperialisti delle Multinazionali), che invece sarebbe stato assai facile arrestare e bloccare al loro “incipit” insurrezionale, perché l’asse politico del paese si spostasse drasticamente e repentinamente verso destra, e tutto ciò senza alcun colpo di stato o pronunciamento militare.
Chi ha permesso che Moro venisse rapito, chi non ha fatto tutto quello che era opportuno e necessario fare perché venisse liberato, chi ha favorito e alimentato (con “sviste”, “disattenzioni” e vere proprie “protezioni”) il terrorismo e la strategia della tensione, forse puntava ad un solo e preciso obiettivo: non – come si è detto – impedire l’arrivo al governo della sinistra comunista, ma – viceversa – coinvolgerla in pieno in una discutibile, “sbirresca” e rovinosa politica d’unità nazionale, con tutte le inevitabili (e controproducenti) conseguenze che ne sarebbero potute derivare.
Fare del PCI una forza attiva di governo (seppur col semplice appoggio esterno), in un momento di tale crisi istituzionale, rendendolo pienamente partecipe e corresponsabile d’ogni decisione, comprese le più impopolari, significava delegittimarlo agli occhi di gran parte del suo elettorato, e soprattutto di quello più maturo e consapevole. Dal caso Moro in poi, la politica italiana, in effetti, non è stata più la stessa; e questo, poiché l’opposizione è apparsa sempre meno credibile e sempre più partecipe di dinamiche di “scambio” ed “acquiescenza” non proprio commendabili. Un dato via via tradottosi – non a caso – nel progressivo indebolimento elettorale del PCI, il quale, dopo aver raggiunto i suoi massimi storici a metà degli anni ’70, è andato progressivamente incontro a una significativa e irreversibile perdita di consensi, a conferma dell’alto prezzo che sarebbe costato l’impantanamento – abilmente indotto e pilotato – nelle gore politiche del caso Moro.
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