Laura Mà, "Ad un passo dalla mia follia"

25 December 2025

Ci sono canzoni che nascono da un’urgenza. Non per piacere, non per intrattenere, ma per restare.
Ad un passo dalla mia follia di Laura Mà è una di queste: una canzone che osserva il mondo dal basso, dagli angoli che nessuno vuole guardare, e lo restituisce senza pietismo, con una grazia ferita e una forza disarmante.

Il primo fotogramma non è un evento preciso, ma una somma di silenzi. Volti incontrati per strada, occhi stanchi, corpi che lottano per non scomparire. “Volevo dare voce a chi il mondo sembra non notare”, racconta Laura. Non per compatire, ma per riconoscere. Per restituire dignità a vite invisibili che, troppo spesso, vengono archiviate come rumore di fondo.

Ed è proprio qui che la sua musica compie un atto politico nel senso più alto del termine: guardare dove gli altri distolgono lo sguardo.

La follia come soglia di libertà

Nel titolo c’è una parola che spaventa: follia. Ma Laura Mà la ribalta, la attraversa, la trasforma. Per lei la follia non è rovina, è confine. È quel passo oltre i condizionamenti, le paure, le gabbie sociali. È il punto esatto in cui si smette di sopravvivere e si ricomincia a vivere davvero.

“È una linea sottilissima per tutti noi”, dice. Una linea che separa il crollo dalla rinascita. Attraversarla non significa perdersi, ma ritrovarsi. E forse è proprio questo che rende il brano così disturbante e necessario: perché ci mette davanti a una verità scomoda. Nessuno è davvero al sicuro. La distanza tra chi cade e chi resta in piedi è spesso solo una questione di tempo, di occasioni, di una mano che non arriva.

Vite invisibili, vite interiori

Il cuore del brano pulsa forte quando Laura racconta i senzatetto. Non li romanticizza, non li addolcisce. Li guarda negli occhi.
E in quegli occhi riconosce se stessa.

“Ieri avevo una vita, oggi non ho più una vita” non è una frase scritta per colpire. È una frase vissuta. Laura non ha chiesto l’elemosina, ma conosce bene la sensazione di caduta, di perdita totale, di annullamento. Scrivendo, ha riattraversato i suoi momenti più bui, quelli in cui si è sentita “morta tra i morti”.

Ed è proprio questa identificazione profonda che salva il brano da ogni retorica. Non c’è distanza tra chi racconta e chi è raccontato. C’è un filo sottile che unisce fragilità diverse ma speculari. La musica, qui, diventa un luogo di riconoscimento reciproco.

Ballare sul dolore: una rivoluzione silenziosa

La scelta più audace di Ad un passo dalla mia follia è forse questa: far ballare mentre si racconta il dolore. Un equilibrio difficile, rischioso, eppure riuscito.

Per Laura, la musica è un ponte tra emozione e corpo. Ballare sul dolore non significa negarlo, ma trasformarlo. Renderlo energia condivisa, movimento, respiro. Anche nelle ferite c’è vita, anche nella sofferenza può nascere leggerezza.

È una danza sottile tra peso e libertà, tra silenzio e rinascita. Una danza che non anestetizza, ma accompagna. Che non schiaccia, ma sostiene.

Psicologa e cantautrice: due anime che si curano a vicenda

La storia di Laura Mà è una traiettoria improbabile eppure necessaria. Psicologa per vocazione, cantautrice per destino. Due identità che non si escludono, ma si nutrono.

La psicologia le ha insegnato ad ascoltare, a leggere le fragilità, a stare dentro il dolore senza fuggire. La musica le ha dato il linguaggio per trasformare tutto questo in emozione condivisa. Nessuna delle due la salva più dell’altra: insieme la tengono viva.

Dalle sale degli hotel ai palchi: la vittoria della lentezza

Prima dei palchi, ci sono state le sale degli hotel di lusso. Cameriera, poi maître. Studi di canto, piano, psicologia. Tre carriere portate avanti insieme, contro ogni pronostico.
“Non ce la farai”, “sei stonata”, “rimarrai solo una cameriera”: frasi ripetute come sentenze.

Eppure Laura non ha mollato. Ha camminato lentamente, come una lumaca che custodisce i suoi tesori. Ha fatto pause, sì, ma pause rigenerative. Mai rinunce. Mai abbandoni.
Mentre il mondo dubitava, lei procedeva a testa bassa. Questa è stata la sua rivoluzione: la costanza.

Una musica fatta di cadute e risalite

Sei singoli, sei capitoli di una stessa storia. Da E Correrò a Ad un passo dalla mia follia, il filo rosso è chiaro: una voglia di vivere ostinata, una resilienza luminosa, un ottimismo che non nega il dolore ma lo attraversa.

Laura è rimasta fanciullesca, diretta, autentica. Nonostante una vita fatta di sacrifici, lavoro incessante, zero vacanze. Una solarità che deve molto a suo padre, che le ha insegnato a “guardare sempre in grande”.

Il palco come specchio

Tra i tanti palchi calcati, X Factor resta uno spartiacque. Una giornata infinita, una selezione spietata. Eppure, in mezzo a milioni di artisti, la sua personalità emerge. Non costruita. Non forzata. Naturale.

Quando le dicono “ci vediamo a Milano”, Laura sente una conferma profonda: ciò che ha sempre saputo di sé ora è visibile anche agli altri. In quel momento nasce una certezza: questa sono io.

Dare voce senza urlare

La sensibilità sociale che attraversa le sue canzoni non nasce da una posa artistica, ma da un bisogno antico. Empatia, senso di giustizia, valori familiari.
Laura non urla. Non predica. Racconta. E nel farlo crea uno spazio in cui chi ascolta può sentirsi meno solo.

Perché la musica, quando è autentica, non salva il mondo. Ma salva le persone una alla volta.

Laura Mà oggi: fragilità e forza

Quando il microfono si spegne, resta Laura. Sensibile fino a farsi male. Fragile di fronte alle ingiustizie. Ma anche guerriera. Autentica. Inarrestabile.

La sua forza interiore è così naturale da diventare quasi invisibile, persino a se stessa. Eppure è lì, sempre. È ciò che le permette di rialzarsi, di trasformare ogni caduta in energia creativa.

La scintilla finale

Se Ad un passo dalla mia follia dovesse lasciare una sola cosa, sarebbe questa: la speranza di ritrovare la propria luce.
Anche nei giorni più bui. Anche quando tutto sembra perduto.

“Follia = libertà = resilienza”.
Non come slogan, ma come verità vissuta.

Laura Mà non canta per distruggere, canta per liberare. E in un mondo che ha paura della fragilità, questa è forse la forma più alta di coraggio.

di Giorgia Pellegrini

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