Storia di "Let it be" (che poi furono 2)5/2/2020

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Storia di "Let it be" (che poi furono 2)5/2/2020

di Giovanni Curatola

Cronologicamente, l’album “Let it be” fu l’ultimo del quartetto di Liverpool. Quando uscì, nel maggio 1970, i Beatles si erano già ufficialmente sciolti da un mese. Sciolti per noia, per sazietà di successo, perché stanchi di fare i Beatles, per dissidi interni conditi da strascichi legali e da presenze assai sgradite come il manager Allan Klein (osteggiato da McCartney) e la compagna di Lennon, Yoko Ono (osteggiata dagli altri 3 della band), infine per la consapevolezza di aver già dato tutto come gruppo, il che ormai li stimolava solo a mettersi “in proprio” (Ringo Starr nel cinema, gli altri 3 come solisti ma sempre nel mondo della musica). Ad ogni modo, “Let it be” fu un progetto maturato parallelamente all’omonimo film, che avrebbe dovuto mostrare al pubblico i Beatles all’opera, intenti a produrre le loro ultime fatiche “guardando indietro”, ossia alla musica tutta voce, chitarra e basso delle loro origini (“Get back” fu infatti l’originario nome del progetto), dopo anni di elaborazioni e sofisticazioni elettroniche o ottenute con anche altri strumenti ed effetti di studio.

Così nelle 20 sessioni in cui si sviluppò il progetto, passate alla storia come “le sessioni della discordia o “l’inverno del nostro scontento” (frase di George Harrison, che dopo litigi con Jhon Lennon e Paul McCartney abbandonò il gruppo per 5 giorni), di materiale per il film se ne raccolse parecchio. Ben 96 ore, essendo sia nelle prime 9 sessioni dei freddi studi di Twickenham (2-16 gennaio 1969) che nelle successive 11 in quelli della “Apple”, a Londra centro (21-31 gennaio), sempre accesi telecamere e microfoni. A finire dentro quel materiale dunque, a parte le prove e le parti prettamente musicali, furono anche diverbi, litigi, battute e dialoghi più o meno sereni. Che restituirono un Paul McCartney sempre più creativo (il solo rimasto a credere nella band e nella sua unità) ma egocentrico e maniacale; un John Lennon sempre più abulico e assente, che parlava praticamente solo per bocca dell’invadente e onnipresente compagna; un George Harrison che reclamava la stessa considerazione dei primi 2, risentito nel vedere da essi sempre sminuite le proprie idee musicali; infine Ringo Starr, il più pacato dei 4 ma con la testa altrove, incline ormai a sentirsi più il nuovo “Paul Newmann” del cinema che il Beatle che era sin lì stato. Non mancarono tuttavia, soprattutto nelle sessioni alla “Apple”, sprazzi di ritrovata armonia e gusto di far musica come una volta, provando assoli e arrangiamenti fra sorrisi e battute. Ad ogni modo, di quelle 96 ore di registrazioni audio e video, che soddisfecero poco i 4 artefici, tra tagli e cuci se ne utilizzeranno si e no solo 90 minuti per il film, compresi 21 dei 42 minuti del famoso concerto sul tetto della “Apple” che il 31 gennaio, in un clima di ritrovato affiatamento e spasso tra i componenti del gruppo, metterà fine alle sessioni. Il resto fu affidato a Glyn Johns perché ne ricavasse qualcosa.

Ma quel qualcosa, la cui uscita fu più volte rinviata per motivi legati soprattutto al film, fu soppiantata da quello che sarebbe nella realtà diventato il vero canto del cigno dei Beatles, il loro testamento musicale, un colpo di coda di gran classe tra il luglio e l’agosto di quell’anno (sempre il 1969): l’album “Abbey Road”. Quello della copertina di loro 4 sulle strisce (e a cui rimandiamo a articolo precedente).  Infastiditi dalle voci (vere o presunte) sul loro conto e dalla critica che li dipingeva ormai come sorpassati rispetto ai tanti gruppi rock e pop che stavano emergendo in quel periodo, i 4 misero da parte ogni dissapore interno e col cameratismo e la dedizione dei tempi migliori, richiamato il loro vecchio e amato produttore George Martin, misero su in poche settimane il loro vero ultimo album. Probabilmente il più bello mai sfornato. Capolavori come Maxwell’s Silver Hammer”, “Octopus’s Garden”, “Sun King”, “Something”, “Golden Slumbers”, “The End”, “Come toghether”, “I want You”, “Here coms the Sun”, “Carry that weight” e “You never give me your money valgono ben più d’un testamento, entrando di diritto nell’immortalità della musica. Quest’album stavolta era davvero l’ultimo. E che fosse il loro capolinea era ben chiaro a tutti, essendo d'altronde proprio ciò che volevano. Ma doveva pertanto essere un capolavoro, perché solo superando sé stessi i Beatles avrebbero finito in bellezza. Impresa (e non solo a mio modesto avviso) perfettamente riuscita.

E il progetto “Let it be”? Per i Beatles, avrebbe a questo punto anche potuto restare tranquillamente a marcire fra le centinaia di nastri registrati 9 mesi prima e accatastati nelle cantine della “Apple”.  Soprattutto (e siamo già primavera del 1970) col gruppo già ufficialmente sciolto e col timore che “Let it be” avesse offuscato in parte i nuovi lavori che da solisti e separatamente Lennon, McCartney e Harrison stavano o avevano appena immesso sul mercato. Ma Allan Klein, amministratore della “Apple” (oltre che nemico giurato di Paul McCartney) lo fece riesumare al produttore discografico Phil Spector per “ricavarne qualcosa” come lasciato detto dai Beatles più di un anno prima. Senonché Spector, passate al setaccio tutte e 96  le ore di registrazione, ricavò si un album più che decente, ma con brani, dove più dove meno, trasformati rispetto alle loro versioni originarie. Non fu solo un lavoro di taglia e incolla, ma di arricchimento e pesante appesantimento dei pezzi con sovraincisioni di archi, corni, voci orchestrali e potenti effetti di studio (Spector era famoso per il suo “muro del suono”) a discapito di assoli di piano o chitarra o tratti di voce. Altro che “Get back”! Spector tuttavia, conscio delle notevoli modifiche apportate ai pezzi, prima dell’uscita dell’album mandò un acetato ai 4 ex Beatles, che comunque approvarono. A cambiare presto idea fu però McCartney (proprio l’autore dei brani “Let it be” e “The long and Winding Road”, quest’ultimo a suo dire totalmente stravolto e manomesso rispetto a com’era stato da lui concepito), che intimò che album e film uscissero coi pezzi in versione originaria. Così non fu, e il buon Paul non esito a trascinare in tribunale, tuttavia con scarso esito, la “Apple” e gli altri 3 ex Beatle.

Mai rassegnato alla storpiatura di certi suoi lavori, McCartney volle fare giustizia rimettendo i puntini sulle “i” nel 2003. L’album “Let it be…naked”, uscito sotto la sua supervisione 33 anni dopo “Let it be” e la rottura del gruppo, ricalca più o meno l’ordine dei pezzi di quest’ultimo ma “de-spectorizzato”, ossia alleggerito da tutta la sovrastruttura elettrica e dai suoni di altri strumenti aggiunti a suo tempo. Rimettere mano ai nastri di tanti anni addietro fu per Paul il prepotente ritorno a galla della propria giovinezza, il rivivere con commozione le situazioni e i sentimenti di allora. Riportato alla sua naturalezza e semplicità originaria, l’album di Paul avrebbe avuto per copertina la stessa di “Let it be” del 1970 ma con le foto dei 4 in negativo, a rimarcare la nudità e l'innocenza originaria. Benché lodevole e seppur tardivo, l’album “Let it be…naked” non avrà tra il pubblico lo stesso successo che ebbe nel 1970 la sua omonima versione “spectoriana”. Che rimane – ripetiamo solo cronologicamente - l’ultimo lavoro di un gruppo che negli 8 anni precedenti aveva ottenuto come mai nessun altro prima un successo planetario, e il cui vero canto del cigno è da rintracciarsi in quell’attraversamento pedonale dell’agosto 1969 ad Abbey Road e nel relativo album. Questi, piaccia o non piaccia, i fatti. Per il resto, let it be…

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