ANDREINA MORETTI, "SONO UN ALBERO GUERRIERO"

05 March 2017

di Andreina Moretti

SONO  UN ALBERO GUERRIERO

 Credo che in ogni uomo cresca un albero che lo identifichi e gli assomigli

Dentro di me c'è un alberello contorto spuntato sulla cima di un dirupo, con le radici non affondate nella terra, ma aggrappate alla roccia a cui si tiene disperatamente…”disperatamente” è il termine adatto a rende l’idea della mia realtà. Sono cresciuta in un orfanotrofio, non ho mai conosciuto  i miei genitori, da piccola ricevevo delle rare visite, forse qualcuno a conoscenza della mia esistenza…  ho solo uno sbiadito e confuso  ricordo,  immagini frammentarie e annebbiate si accavallano, al punto da sembrare solo un sogno... un sogno disperato come me. Per molti anni ho atteso che qualcuno venisse a prendermi…i miei vaghi ricordi sono abitati dall’immagine di  una signora pallida e magra, con un lungo cappotto  nero…percepisco ancora il suo profumo di lavanda, quando socchiudo gli occhi e mi lascio andare ai ricordi…io annusavo , per conservare i profumi …aspiravo profondamente per trattenere la vita nelle mie narici, per rubare un po’ di mondo, lasciandolo entrare nei miei polmoni e catturandolo, annusavo le persone e i loro abiti, come fanno i cuccioli degli animali, sono certa che inconsciamente  fossi alla ricerca della mamma… Non vista odoravo i suoi capelli , tutto di lei aveva un profumo particolare, era il profumo della vita che io non conoscevo…La donna dal lungo cappotto nero veniva da me…cercava me…mi ravviava i capelli, con le sue minuscole mani da bambina, le unghie curate e laccate di rosso, la carnagione di porcellana…avvertito i brividi per tutto il corpo, poi mi lasciavo andare a questo piacere che mi invadeva,  spesso accadeva che mi addormentassi  tra le sue braccia, abbandonandomi ad un sonno, che poi mi avrebbe catapultato nella realtà più dolorosa…svegliarmi senza trovarla al mio fianco…mi maledicevo per aver sprecato il poco a mia disposizione, per crollare addormentata, invece di scrutarla per conoscere i tratti che mi appartenevano, per ascoltare il suo respiro. I giorni scorrevano dell’attesa del passaggio del treno, che sfrecciava sui binari vicino all’orfanotrofio, ogni giorno alle 14.15 sferragliando con il suo suono metallico, facendo  tremare la casa dalle fondamenta…Una strana smania si impossessava di me il sabato mattina, perchè la domenica era l’unico giorno di visita, io mi incollavo alla finestra con il naso schiacciato contro il vetro e con il calore del mio respiro appannavo la visuale, ma sbirciavo imperterrita la vita fuori di li, volgendo lo sguardo oltre l’alone umido…le mani aggrappate agli infissi in legno mi procuravano dolore, ma io attendevo,  attendevo…attendevo…giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese con la speranza che quel treno portasse la donna dal lungo cappotto nero da me. Sognavo l’esile figurina di quella donna che veniva a prendermi  conducendomi lontano…avevo un gran dolore al cuore e allo stomaco, per trovare sollievo mi addormentavo rannicchiata nella posizione fetale,  mentre con le braccia mi stringevo forte il ventre. Crescendo iniziai a convincermi che quell'inferno, sarebbe terminato nel momento in cui, una famiglia mi avesse adottata; l'orfanotrofio è un luogo di dolore,  solo chi ha avuto la sfortuna di viverci può capirmi; è una spaccatura nell'anima che ti porta inesorabilmente a sentirti rifiutato, non voluto, dimenticato, un errore…ecco mi sentivo un errore,  uno sbaglio, un calcolo inesatto… il ventre che mi aveva concepito, rifiutava di amarmi. Forse mia madre, come tante altre donne, era troppo giovane per poter affrontare le sue responsabilità, forse i suoi genitori l'avevano obbligata a nascondermi, come una vergogna agli occhi del mondo, oppure potrei essere frutto di un amore clandestino...avrebbe potuto abortirmi…peccato…  ho sempre pensato che sarebbe stato meglio.

Avevo trovato un buco, da dove sgattaiolare fuori dall'istituto dei trovatelli e aggirarmi per la città, nella speranza che i miei genitori mi riconoscessero, quando rientravo dopo un lungo vagabondare  ero stanca, affamata, sporca, parevo un cucciolo malconcio, le suore mi aspettavano per punirmi. Le cornacchie, come le chiamavamo noi, non riuscivano a provocarmi un dolore fisico, che superasse quello che provavo nell’anima. Cercavano di educarci, donarci un tetto sulla testa, del cibo per sfamarci, ci insegnavano un mestiere; noi trovatelli dovevamo adoperarci nell’arte dell’arrangiarci. Il giudizio comune ci etichettava come dei bastardi senza futuro…chi lo ha mai detto che i bastardi non possono riuscire ad imparare un mestiere? Dove è mai stato scritto che un trovatello non possa divenire qualcuno di importante? Un bastardo è intelligente tanto quanto un figlio legittimo…sicuramente non avrà la possibilità economica per poter studiare, dal momento che non ha la certezza, neppure di potersi sfamare ogni giorno, ma nel suo destino non c’è un testamento a favore della sorte avversa, che lo influenzi solo con la sfortuna.

Nei miei incubi notturni c’era sempre lei, la pallida donna dal lungo cappotto nero, che mi sussurrava “Aspettami Aida, domenica verrò a trovarti e ti porterò dolci e caramelle… e un giorno non lontano, ti condurrò  via con me!” Non mi interessavano i dolci, era lei la mia caramella; ero attratta dalla sua figura, anche quando ero arrabbiata, continuavo l’attesa spasmodica, speravo di vederla scendere da quel treno, ma lei non arrivava, non veniva mai da me. Non so, se avesse mai capito del male che provocasse, lasciandomi sospesa in un limbo nell’attesa del suo arrivo.

Divenivo sempre più irrequieta, al punto che una domenica, non riuscendo più a respirare l’aria dell’orfanotrofio, mi sembrò di impazzire. Quando le fondamenta della casa iniziarono a traballare, i vetri tintinnavano… era il segnale del sopraggiungere del treno, sentii una ribellione dentro che ribolliva e giungeva tuonando fino al cervello,  iniziai a saltare da una finestra all’altra, aggrappandomi alle inferiate  urlando disperata “ Mamma, mamma… vieni a prendermi, corri non ce la faccio più!” Saltai sul tavolo  situato al centro della stanza, mentre tutti i bambini mi guardavano stupiti, con le bocche spalancate e gli occhi sgranati, Miranda la mia amichetta del cuore, con la mano sulla bocca per non urlare  disse “ Aida per l’amore del cielo, smettila! Vuoi essere punita? Vieni qui che ti consolo io!” con le mani cercava di afferrarmi, mentre saltavo sulle poltrone del salottino.  Le suore accorsero anticipate dal tintinnare del rosario appeso alle cintole, mentre con una mano si alzavano le lunghe tuniche per non inciampare; giunse a quel punto la madre superiora, attirata dalle urla generali e con la sua voce baritonale, gli occhiali con la montatura nera, che le davano un espressione ancora più seria disse “ Aida fermati!” in quel preciso istante stavo saltando dal divano alle inferiate del finestrone centrale… come esorcizzata mi fermai e caddi dolorosamente per terra.

Dovettero chiedere l’intervento del dottore Astolfi, che con la sua calma e la sua lentezza, dava maggiore risalto alla sua mole statuaria “ Aida ha avuto un crisi di nervi, è stressata, forse troppi lavori, troppi impegni, troppe responsabilità…suor Cecilia mi raccomando, ogni sera questo blando sedativo a base di erbe per tre giorni…e poi al bisogno…” Suor Cecilia con lo sguardo preoccupato esclamò“ Dottore ma è una ragazzina di 10 anni,  la prescrizione di un sedativo non sarà eccessivo?” il dottore continuando pacatamente “ Suor Cecilia stia tranquilla è una medicina naturale per calmare i nervi…mi raccomando ogni volta che si ripresentasse un’eccitazione grande, somministratele questo medicinale”.

Passarono gli anni e la donna dal lungo cappotto nero era solo un ricordo, come il suo profumo di lavanda. Un giorno la madre superiora mi convocò nl suo ufficio, Miranda era preoccupata perché pensava che ne avessi combinata una delle mie e mi disse “Aida c’è qualcosa che non mi hai detto?” io iniziai a riflettere sul mio comportamento, ma non riuscivo ad intuire cosa mai avessi potuto commettere per essere richiamata dalla madre superiora . “Aida, se la cornacchia ti vuole vedere nel suo ufficio, significa che l’hai combinata grossa stavolta!” ero preoccupata anch’io, mi incamminai scrollando le spalle in segno di disinteresse, ma la realtà era che non volevo Miranda si preoccupasse per me, le davo già troppi pensieri. L’ufficio della madre superiora era al primo piano, la prima porta a destra, bussai e attesi la sua voce pronunciare il mio nome “Aida, vieni pure aanti!” “ Buonasera reverenda madre, mi hanno avvisata che voleva vedermi” “Siediti Aida…non voglio fare troppi giri di parole per annunciarti una bella notizia…Una famiglia di Roma, ha espresso il desiderio di adottarti…è una famiglia a modo, lui è il proprietario di un grande ristorante, nel quale lavora anche la moglie, hanno una casa bellissima con un  grande giardino, hanno due figli ormai grandi ma desiderano adottarne uno…” non riuscivo più ad ascoltare neppure una parola…avevo le vertigini, mi girava la testa, mi sentivo svenire, un calore mi invadeva dai piedi  e saliva su'.

In quegli anni leggevo molto, evadevo con i libri da una realtà dolorosa, nelle mie ricerche culturali, mi ero imbattuta in una scrittrice Andreina Moretti, che riusciva ad esprimere i miei sentimenti traducendoli in prosa e poesia, mi sentivo capita e i suoi ersi  che parevano mi appartenessero:                                                     

SONO UN ALBERO

Io sono un albero

 con il corpo abbottonato alla corteccia,

rifugio degli spettri nella notte,

impigliato al vento il suo mantello

 ridesta ogni bimbo dal suo sonno.

Sono un albero e una sposa

di fiori e di profumi un anello,

in pegno la  promessa del suo frutto.

 Sono un albero che annusa la natura circostante

respira l'universo della gente,

cercando il destino e il suo disegno.

 Sono un albero che cerca nel passato la sua storia,

 affonda le radici assai bramose

nel sangue e nella terra dei ricordi.

Sono un albero e sono un guerriero

che lotta contro il tempo e le stagioni

 illusa protendo all' infinito e all’ eterno.

Le braccia al cielo in preghiera

 e Dio si inginocchia e spera

rapito dal battito di un cuore.

 Sono un albero solcato dalle rughe

dalle pene e dagli errori,

 è scritto che i germogli dell'amore

 l'anima del poeta  desterà.

 “Sono un albero che annusa la natura circostante… con il corpo abbottonato alla corteccia…si, sono così…Sono un albero che cerca nel passato la sua storia, affonda le radici assai bramose nel sangue e nella terra dei ricordi… Mamma , le mie radici e il sangue!”

 Il giorno del  mio trasferimento a casa della famiglia Antonacci, proprio quel giorno, si spalancò il portone e apparve la donna con il lungo cappotto nero, con il volto di chi avesse subito un torto; si avvicino lentamente e mi sussurrò” Non merito neppure un abbraccio?” Con tutte le forze che avevo in corpo, serrai i pugni e non mi mossi; avrei voluto buttarle le braccia al collo e urlarle di portarmi via, le avrei raccontato le attese interminabili, le crisi di nervi e le notti insonni, ma non risposi e restai in silenzio…temevo di soffrire ancora, temevo che mi avrebbe delusa e lasciata nuovamente…non ora, ora non potevo più attenderla. Con la famiglia Antonacci scoprii il senso della famiglia, mi aiutarono ad affondare le mie radici nel sangue e nella terra dei ricordi, ho conosciuto le mie origini e ho dato un po’ di respiro alle mie paure…come nella poesia, i miei sonni sono ancora ridestati dagli spettri …con lunghi cappotti neri che vengono a rubarmi i sogni. Ho conosciuto il calore di una casa, la dolcezza degli affetti, la bellezza della condivisione, ho appagato in parte il mio senso di appartenenza, ho imparato a sorridere alla vita e gioire dei doni del creato…se la donna dal lungo cappotto nero mi avesse abortito, oggi non avrei appreso la ricchezza della famiglia : “Io Aida Antonacci dichiaro di essere figlia di Alvaro Antonacci e Loriana Saliceti…non sono più una trovatella ma sono un albero guerriero, imparerò a protendere le braccia al cielo, sperando che Dio si inginocchi rapito dal battito del mio cuore.”

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